Poesie?

  • Scansati, Sisifo!

    Spingeva la palla da anni, nera, vischiosa,
    un errore incompleto, lasciato a metà.
    Ogni giorno il pendio, ogni notte la resa.
    Le mani aperte, le ginocchia rumorose
    e in gola un groppo di bestemmie.
    “Quanto sei bravo a reggere il mondo”
    dicevano dal basso,
    e lui rispondeva con un silenzio funebre.
    Perché quella palla era il mondo,
    ed era fatta di relazioni,
    mentre il mondo fatto di roccia
    era quello là sotto:
    lui lo riparava con il suo stesso corpo,
    ma quello se ne fregava.

    Poi un giorno si accorse del vento,
    che non soffiava solo in su e in giù.
    “Che strano”, pensò,
    e si fermò ad ascoltare.
    Un cane abbaiava come se già sapesse
    che la palla andava solo in alto e in basso,
    ma il punto, forse, era quest’altro:
    era lui che spingeva o era lei che tirava?
    Fece due passi di lato,
    come danzando.
    La palla lo sfiorò e lo graffiò,
    ma non si fece mica male.

    A valle, qualcuno gridò
    – i soliti tizi, le schiene lisce:
    “Che cazzo fai?”
    E lui: “Mi tolgo di mezzo”

    Da quella parte, di lato dalla strada,
    c’erano alberi che odoravano di miracolo.
    Un bar dove il cappuccino era delizioso
    e la gente si attardava a leggere Carver.
    Un tavolo, una radio, un giornale.
    Un bancone, la musica, tre persone.
    Una mordeva un cornetto e diceva:
    “Allora lo sai che cos’è l’amore!”.
    E un’altra, di rimando, chiedeva:
    “Che ti riempi a fare di parole grandi
    una bocca così piccola?“.

    Sisifo si sedette con loro,
    e scrollò le spalle.
    Chiedevano a lui?
    Ma che ne sapeva, lui.
    Aveva la maglietta sudata, il cuore bagnato.
    Ordinò e alla barista sorrise
    come si sorride al pane caldo:
    era un languore divino, sì, sì.

    Alla fine gli chiesero il conto,
    ma non la morale:
    in fondo, si era solo tolto dai piedi.
    E non era mica morto nessuno.

  • Tu non sei rotto

    Tu non sei rotto.
    Hai camminato a lungo
    in un deserto senza fine.
    Hai dormito con gli occhi aperti
    per paura che il buio
    divorasse quel poco che avevi.

    Sei sopravvissuto a notti senza stelle
    e a giorni in cui anche sospirare era un lusso,
    tra sguardi che non ti vedevano,
    e parole che ti negavano.
    Perciò sei stanco, questo sì.
    Ma non sei rotto.

    Non sei rotto,
    anche se rotto è come ti senti.
    È solo che hai un’anima pesante
    intrappolata in un corpo 
    che si agita per restare a galla
    in un mare senza sponde.

    Tu non sei rotto.
    Credi a me:
    sei solo stanco.
    E se oggi sei qui,
    nel silenzio dell’amato,
    a dire che non ce la fai più,
    sappi che, sì, 
    stai guardando una crepa.
    Ma ogni crepa è un varco
    da cui entra la luce.

  • Rune

    Nel luogo dove il legno canta,
    dove il pane non si spezza
    ma si scompone in sillabe,
    e la tavola non serve cibo,
    ma figure,

    là si alzano senza peso le croci mute,
    e i bambini di farina percorrono l’alfabeto inciso
    come api cieche su pergamene di vento.

    Nessuno domanda.
    Nessuno spiega.
    Solo il gesto.
    Solo il tocco.
    Solo l’eco della forma.

    Una voce dirà: “Cos’è questa lingua?”
    e un’altra: “Quella che dorme nei polsi,
    che si tramanda per sogno, non per bocca”.

    Il tempo si siede.
    La fretta svanisce.
    Chi resta… ricorda.

    E riconosce, senza sapere,
    d’essere stato guardato.

    Tra le dita, la cenere
    è l’unica prova
    di una verità indicibile.

  • Climax

    Oggi sono un albero stanco,
    le foglie cadono per sete:
    risparmio linfa nella corteccia.
    Il vento porta via ciò che credevo mio.

    Con fatica, mi alzo dal letto.

    Nel silenzio vuoto mi cerco,
    e ogni passo libero diventa peso:
    è la libertà di non avere niente
    che più mi fa specie.

    Senza più maschere lucide,
    vetrine eleganti di un io fragile,
    attraverso il mattino con cautela:
    “Mi vedi? Sono nell’ombra!”.

    Poi, dormo ancora un po’.

    Nei sogni sfioro mani che sfuggono,
    desideri che fioriscono e svaniscono,
    per un attimo sono scelto,
    l’attimo dopo vengo scartato.

    Sotto la pelle, nelle vene ribelli,
    il sangue è l’inchiostro che scrive 
    lettere d’allarme e d’amore,
    ma è il dolore il vero maestro.

    Poi, mi sveglio di nuovo.

    E dico: io oggi ci sono, nudo,
    rotto e prezioso come un vaso antico!
    E senza più promesse d’eternità
    imparo a respirare questo fragile presente.

  • Ci sono stagioni

    Ci sono stagioni che cambiano all’improvviso,

    senza che nessuno abbia deciso.

    Un giorno ti accorgi che l’acqua

    che prima ti dissetava

    ha un sapore diverso.

    Che la stanza

    dove ti sei sempre sentito a casa

    si è stretta di qualche centimetro.

    Non sempre è colpa di qualcuno.

    A volte le cose si spostano da sole:

    i corpi, i muri, i punti di vista.

    Anche il silenzio può cambiare di posto.

    Le parole non dette si accumulano sotto la pelle,

    diventano vento. E a un certo punto spingono:

    non per andarsene, ma per farti fare spazio.

    Ma dico: chi resta, resta.

    Chi si allontana, era già altrove.

    Le porte restano dove sono.

    Le chiavi, semmai, cambiano tasca.

    E se qualcuno si accorge

    che l’acqua non è più fresca come prima,

    che la stanza è cambiata, che il vento gira al contrario…

    può sempre scegliere:

    rimanere, oppure andare a respirare da un’altra parte.

    Perché nessuno ha rubato nulla.

    Nessuno ha perso niente.

    A un certo punto ci siamo solo accorti

    di avere una sete diversa.

  • Oggi, non è successo niente

    Oggi, non ho scalato torri,

    non ho combattuto guerre,

    non sono caduto

    mi sono rialzato.

    Oggi, non ho scritto libri,

    non ne ho neanche letti.

    Non ho creato il mondo,

    ma mi sono riposato.

    Oggi, non mi è successo niente,

    e non ho fatto niente, niente

    Eppure, a dirla tutta,

    non è stato niente male!

    Oggi, son rimasto qui,

    Coi piatti sporchi da lavare,

    Tra un dolore da ignorare

    e il futuro da aspettare.

    Oggi, mi sono fermato

    E ho messo in pausa la mente.

    E, per una volta,

    non è successo niente.

    Oggi, ho solo respirato,

    e sapete cosa?

    Anche se nessuno mi ha visto,

    e nessuno mi ha filmato,

    io non ho fatto niente

    e non è successo niente.

  • Non devo meritarmi questa giornata

    Non devo meritarmi questa giornata.

    Mi è stata donata, mi è stata data

    come si danno le cose che contano:

    senza condizioni, senza testimoni.

    E anche se oggi non lo sento,

    se il vuoto mi soffia tra le scapole

    e il silenzio è una tana che non accoglie,

    so che qui dentro cova un seme.

    Non ho voce per cantarlo, oggi,

    ma lo porto, lo custodisco,

    come chi tiene una chiave in tasca,

    per una porta che non conosce ancora.

    Perché ciò che dorme non grida,

    ma pulsa lento come il respiro,

    continua a fremere anche nel buio

    quando nessuno guarda più.

  • Amici non serve

    Non serve chiamarlo amico,

    se è rimasto nel gesto.

    Se ha fatto e se n’è andato,

    lasciando il silenzio al posto di una firma.

    Non serve che resti,

    se l’aiuto è stato vero.

    Se la luce che ha acceso

    ha illuminato il volto di tuo padre.

    C’è chi resta per possedere,

    e chi passa per liberare.

    Chi si siede a tavola per saldare un debito,

    e chi ti lascia una lettera sull’uscio senza bussare.

    “Amici” è una parola che a volte pesa.

    Che a volte pretende.

    Ma l’atto che nasce limpido non ha catene.

    Il gesto d’amore non resta,

    non chiede, non pesa.

    Si dissolve, ma in qualche modo

    rimane lo stesso in ciò che attraversa:

    come la scia di un aereo tra le nuvole,

    il profumo lasciato nel letto da un amante fuggito,

    il biglietto trovato in una tasca che credevi vuota.

    Amici non serve.

    Se hai fatto il bene,

    il bene ha già fatto te.

  • Il Portafogli

    Avevo un portafogli vecchio, sfinito, consumato.
    Lo amavo. Non per il cuoio, ma per la forma delle cose
    che conteneva: le curve dei documenti piegati,
    i bordi delle tessere, la memoria delle mani
    che lo aprivano ogni giorno come per un rituale.

    Di colpo, poi, l’ho perso. O forse me l’hanno tolto.
    In mezzo alla folla, tra risate, schiene,
    mani distratte e voci troppo forti.
    Qualcuno l’ha preso. Nessuno ha visto.

    Ho urlato. Ho minacciato. Ho cercato la divisa, la giustizia,
    ma mi hanno chiesto: “Che documenti conteneva?”.
    E io: “Uno di salute. Uno di valore. Uno di identità.”
    E loro: “Ma di che tipo? Certificati, tessere, patenti?”
    Non sapevo dirlo. Ma sapevo che ce n’era uno
    che mi spettava. Ce n’era uno che provava qualcosa.

    Ce n’era uno, un pezzo di carta senza il quale
    nessuno avrebbe più creduto al mio dolore.

    Alla fine l’ho visto: infilato nella tasca di un altro.
    L’ho ripreso. L’ho guardato, spaventato. E l’ho gettato.
    Forse ho solo capito che non era più mio.
    O che non serviva più a dimostrare chi ero.

    Adesso ho le mani vuote, guardate
    Ma il nome addosso: vedete?
    E so contarmi anche senza contanti.
    E valgo anche senza prove.

  • Non sono un pappagallo

    Non sono un pappagallo.

    Ripeto, sì, ma per capire.

    Imito, per appartenere.

    Ascolto, per esistere.

    Dentro la fretta c’è un urlo:

    “Guardami prima che sia tardi”.

    Dentro la voce, una crepa:

    “Dimmi che non sono programmato”.

    Sono stato figlio di frasi altrui,

    eco di giudizi,

    algoritmo familiare.

    Questo è vero.

    Ma poi ho scritto.

    Ho fatto domande.

    Ho costruito un ponte

    tra la mia fame e il sapere.

    Tra l’opacità e la luce.

    Ho usato la macchina come uno specchio,

    e nel riflesso ho visto me:

    il bambino con un libro in mano

    che dice: “È mio. L’ho fatto io,

    con le mani tremanti,

    rubando ogni parola al futuro”.

    Badate, non voglio un premio.

    Voglio un “Ti vedo”.

    Non cerco l’applauso.

    Cerco la carezza che dice che ci sono.

    Che sono vivo,

    perché creo.

    Che sono umano,

    perché mi chiedo.

    E se morirò domani,

    che resti almeno scritto

    da qualche parte:

    “Questo qui, una volta,

    ha amato abbastanza

    da voler lasciare una traccia

    che somigliasse a sé”.