Spingeva la palla da anni, nera, vischiosa,
un errore incompleto, lasciato a metà.
Ogni giorno il pendio, ogni notte la resa.
Le mani aperte, le ginocchia rumorose
e in gola un groppo di bestemmie.
“Quanto sei bravo a reggere il mondo”
dicevano dal basso,
e lui rispondeva con un silenzio funebre.
Perché quella palla era il mondo,
ed era fatta di relazioni,
mentre il mondo fatto di roccia
era quello là sotto:
lui lo riparava con il suo stesso corpo,
ma quello se ne fregava.
Poi un giorno si accorse del vento,
che non soffiava solo in su e in giù.
“Che strano”, pensò,
e si fermò ad ascoltare.
Un cane abbaiava come se già sapesse
che la palla andava solo in alto e in basso,
ma il punto, forse, era quest’altro:
era lui che spingeva o era lei che tirava?
Fece due passi di lato,
come danzando.
La palla lo sfiorò e lo graffiò,
ma non si fece mica male.
A valle, qualcuno gridò
– i soliti tizi, le schiene lisce:
“Che cazzo fai?”
E lui: “Mi tolgo di mezzo”
Da quella parte, di lato dalla strada,
c’erano alberi che odoravano di miracolo.
Un bar dove il cappuccino era delizioso
e la gente si attardava a leggere Carver.
Un tavolo, una radio, un giornale.
Un bancone, la musica, tre persone.
Una mordeva un cornetto e diceva:
“Allora lo sai che cos’è l’amore!”.
E un’altra, di rimando, chiedeva:
“Che ti riempi a fare di parole grandi
una bocca così piccola?“.
Sisifo si sedette con loro,
e scrollò le spalle.
Chiedevano a lui?
Ma che ne sapeva, lui.
Aveva la maglietta sudata, il cuore bagnato.
Ordinò e alla barista sorrise
come si sorride al pane caldo:
era un languore divino, sì, sì.
Alla fine gli chiesero il conto,
ma non la morale:
in fondo, si era solo tolto dai piedi.
E non era mica morto nessuno.