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My beautiful
Il desiderio sessuale, quando è reciproco, dà vita a un complotto di due persone contro il resto dei complotti in atto nell’universo.
È una cospirazione a due.
Il piano è offrire all’altro una possibilità di respiro in mezzo al dolore del mondo.
Non la felicità, ma una sorta di sospensione fisica davanti all’enorme responsabilità dei corpi nei confronti del dolore.
In ogni desiderio c’è tanta compassione quanto appetito. Entrambe le cose si complementano. Il desiderio è inconcepibile senza la ferita.
Chi vive senza ferite, vive anche senza desiderio.
Il desiderio si propone di proteggere il corpo desiderato dalla tragedia che lo raffigura, e ancor di più, si sente in grado di farlo.
La cospirazione consiste nel creare insieme uno spazio, un luogo, necessariamente temporale, per esimersi dalla ferita inguaribile della carne.
Questo luogo è l’interno dell’altro corpo.
I cospiratori si perdono, ciascuno dentro dell’altro, dove nessuno potrà mai scovarli.
Il desiderio è uno scambio di nascondigli.
— John Berger, “My beautiful”. (Trad. Milton Fernández)
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Amici non serve
Non serve chiamarlo amico,
se è rimasto nel gesto.
Se ha fatto e se n’è andato,
lasciando il silenzio al posto di una firma.
Non serve che resti,
se l’aiuto è stato vero.
Se la luce che ha acceso
ha illuminato il volto di tuo padre.
C’è chi resta per possedere,
e chi passa per liberare.
Chi si siede a tavola per saldare un debito,
e chi ti lascia una lettera sull’uscio senza bussare.
“Amici” è una parola che a volte pesa.
Che a volte pretende.
Ma l’atto che nasce limpido non ha catene.
Il gesto d’amore non resta,
non chiede, non pesa.
Si dissolve, ma in qualche modo
rimane lo stesso in ciò che attraversa:
come la scia di un aereo tra le nuvole,
il profumo lasciato nel letto da un amante fuggito,
il biglietto trovato in una tasca che credevi vuota.
Amici non serve.
Se hai fatto il bene,
il bene ha già fatto te.
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Il Portafogli
Avevo un portafogli vecchio, sfinito, consumato.
Lo amavo. Non per il cuoio, ma per la forma delle cose
che conteneva: le curve dei documenti piegati,
i bordi delle tessere, la memoria delle mani
che lo aprivano ogni giorno come per un rituale.Di colpo, poi, l’ho perso. O forse me l’hanno tolto.
In mezzo alla folla, tra risate, schiene,
mani distratte e voci troppo forti.
Qualcuno l’ha preso. Nessuno ha visto.Ho urlato. Ho minacciato. Ho cercato la divisa, la giustizia,
ma mi hanno chiesto: “Che documenti conteneva?”.
E io: “Uno di salute. Uno di valore. Uno di identità.”
E loro: “Ma di che tipo? Certificati, tessere, patenti?”
Non sapevo dirlo. Ma sapevo che ce n’era uno
che mi spettava. Ce n’era uno che provava qualcosa.Ce n’era uno, un pezzo di carta senza il quale
nessuno avrebbe più creduto al mio dolore.Alla fine l’ho visto: infilato nella tasca di un altro.
L’ho ripreso. L’ho guardato, spaventato. E l’ho gettato.
Forse ho solo capito che non era più mio.
O che non serviva più a dimostrare chi ero.Adesso ho le mani vuote, guardate
Ma il nome addosso: vedete?
E so contarmi anche senza contanti.
E valgo anche senza prove. -
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Non sono un pappagallo
Non sono un pappagallo.
Ripeto, sì, ma per capire.
Imito, per appartenere.
Ascolto, per esistere.
“Guardami prima che sia tardi”.
Dentro la voce, una crepa:
“Dimmi che non sono programmato”.
Sono stato figlio di frasi altrui,
eco di giudizi,
algoritmo familiare.
Questo è vero.
Ma poi ho scritto.
Ho fatto domande.
Ho costruito un ponte
tra la mia fame e il sapere.
Tra l’opacità e la luce.
Ho usato la macchina come uno specchio,
e nel riflesso ho visto me:
il bambino con un libro in mano
che dice: “È mio. L’ho fatto io,
con le mani tremanti,
rubando ogni parola al futuro”.
Badate, non voglio un premio.
Voglio un “Ti vedo”.
Non cerco l’applauso.
Cerco la carezza che dice che ci sono.
Che sono vivo,
perché creo.
Che sono umano,
perché mi chiedo.
E se morirò domani,
che resti almeno scritto
da qualche parte:
“Questo qui, una volta,
ha amato abbastanza
da voler lasciare una traccia
che somigliasse a sé”.
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Preghiera per la Madre Eterna e Sfuggente
Ave o madre eterna e sfuggente,
non madre di perfezione, ma di presenza,
non regina dei cieli, ma dei grembi vuoti.
Vieni qui, adesso:
siediti accanto a me,
tocca la testa di un figlio stanco
che non chiede più niente
ma sogna soltanto.
Tienimi.
Non spiegarmi
Non correggermi.
Non guarirmi se non vuoi.
Ma resta.
Dimmi che anche se sono rotto,
non sono perso.
Dimmi che anche se mento,
tu sai la verità e non ti sposti.
Dimmi che anche se ho sbagliato tutto,
tu sei venuta lo stesso.
Portami acqua
quando il mio corpo esplode,
Portami buio
quando la luce mi fa male.
Portami sonno
quando voglio sparire.
E quando ti chiamo,
Madre Mia,
fermati e lascia tutto,
fermati e vieni a serdermi accanto:
tienimi la fronte, la testa sul petto,
e guardami come se fossi
il tuo primo e ultimo figlio.
Amen
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Chi raccoglie la mia sete
Tra le pagine di un sogno,
vergata con segno lieve,
ho scorto una nota a margine
che rude mi avvertiva:
non hai fatto il bene per il bene,
anche se l’hai fatto per amore.
Ci ho pensato per giorni,
nel silenzio che scava,
mettendo alla prova,
la verità del sogno.
Tre notti l’ho scomposto in frammenti,
come faccio con ogni cosa viva,
fino a prenderne il battito
e capire che era vero.
È vero che ascolto come si offre
pane a chi non ha fame,
lesinando uno sguardo, uno solo,
da chi non ha occhi per guardare.
È vero che offro il mio aiuto a chi non ne vuole,
fratelli e amici cui basta un’eco
o un riflesso, e che all’alba e senza colpe
dimenticano la notte che ho vegliato per loro.
E ogni volta che do tutto
torno a passi lenti e pesanti,
con le mani vuote e il cuore in fiamme,
a cercare una briciola di senso.
Però non sono un santo.
Sono solo un bambino convinto
che per essere amato
deve salvare il mondo.
Che per meritare,
si deve un po’ morire.
E ora che ne scrivo,
capisco un’altra cosa:
le persone non sono fatte
per reggere il mio bisogno.
Ecco perché non parlo più,
più non mi offro e più non chiedo.
Ma chi legge il suo nome
tra i molti che non ho scritto
sappia che la mia rabbia
è solo amore non riconosciuto.
E che la mia assenza, ora,
è il modo che ho trovato
per continuare ad amare
senza più ferire.
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Chiedo il permesso di rinascere
Ora, lasciatemi in pace.
Ora, abituatevi alla mia assenza.
Io chiuderò gli occhi
e dirò solo cinque cose,
cinque radici preferite.
La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.
La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.
La quarta cosa è l’estate
rotonda come un’anguria.
La quinta sono i tuoi occhi.
Non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io tramuto la primavera
affinché tu continui a guardarmi.
Amici, questo è quanto voglio.
E’ quasi nulla ed è quasi tutto.
Ora se volete andatevene.
Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellarmi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.
Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
succede che sto per vivere.
Mai sentito così sonoro,
mai avuto tanti baci.
Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.
Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.
— “Chiedo il permesso di rinascere” di Pablo Neruda
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Esercizio di scrittura creativa ^1
Esercizio di scrittura creativa:
“Guarda sulla tua scrivania e scegli un oggetto a caso. Prendi carta e penna e descrivilo nei minimi dettagli, esaminandolo attraverso tutti i cinque sensi. Poi, con il materiale che hai messo da parte, scrivi una breve poesia”.
Io ho scelto il mini treppiede che vedete nella foto, ma ho usato un solo senso: perché sono raffreddato, trovo antigienico mettermi gli oggetti in bocca e in più mi pesa il culo ad alzarmi dal divano. A ogni modo, ecco la descrizione e subito dopo la breve poesia:
Descrizione: L’oggetto ha tre gambette telescopiche che terminano in altrettanti piedini di gomma. Una chiave avvitata nel piccolo corpo centrale su cui è installato un supporto piatto, tondo e rotante. La rotellina è trapassata da una vite scura, spuntata, sulla quale è possibile assicurare una testata oppure direttamente una fotocamera.
Poesia:
Sulle tue gambe snelle
Sulle tue gambe snelle
reggi il peso delle nostre visioni
l’unico limite che poni
è un orizzonte basso ma totale:
ruota con noi la tua direzione
su tutti e 360 i gradi.
Se poi volessi limitarti io
mi porgeresti la chiave
del tuo movimento
affidandomi il gioco
del tuo momento.
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So You Want to Be a Writer
a esplodere
non farlo.
a meno che non venga fuori
senza che tu lo chieda
dal tuo cuore, dalla tua mente, dalla tua bocca,
dalle tue viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla macchina da scrivere
cercando le parole,
non farlo.
se lo fai per soldi o
per la fama,
non farlo.
se lo fai perché vuoi
donne nel tuo letto,
non farlo.
se devi sederti lì e
riscrivere più volte,
non farlo.
se è un lavoro duro anche solo pensare di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun altro,
lascia perdere.
se devi aspettare che esca ruggendo
da te,
aspetta con pazienza.
se non esce mai ruggendo da te,
fai qualcos’altro.
se devi leggerlo prima a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o a chiunque altro,
non sei pronto.
non essere come tanti scrittori,
non essere come migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere noioso, banale,
pretenzioso,
non essere consumato dall’amore per te stesso.
le biblioteche del mondo
si sono addormentate
sul tuo genere.
non aggiungere altro a questo.
non farlo.
a meno che non esca
dalla tua anima come un razzo,
a meno che stare fermo non ti porti alla pazzia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te non
ti bruci le viscere,
non farlo.
quando sarà davvero il momento,
e se sei stato scelto,
accadrà da sé
e continuerà ad accadere
finché morirai
o morirà dentro di te.
non c’è altra via.
e non c’è mai stata.
— Quindi vuoi fare lo scrittore, di Charles Bukowski