IL CORPO È L’OROLOGIO DELL’ANIMA – Perché quando sei depresso le ore si fermano (e quando sei felice volano)

Tempo oggettivo e tempo soggettivo

A tutti è capitato di notare come l’orologio dell’anima segua un ritmo diverso da quello dei nostri orologi da polso. Un minuto sulla lancetta è identico per chiunque, eppure può essere un’eternità per chi soffre o un lampo fugace per chi gioisce. La fisica ci ha a lungo insegnato che il tempo è una dimensione oggettiva che “non trascorre, semplicemente è”, ma la nostra esperienza quotidiana ha sempre suggerito tutt’altro: il tempo psicologico può scorrere a velocità cangianti, allungarsi o comprimersi a seconda dello stato d’animo.

E a un certo punto della storia fu proprio un noto fisico, tale Einstein, a venire incontro alla nostra percezione intuitiva del tempo e – calcoli alla mano! – a dirci che non era vero niente che il tempo era uguale per tutti: il tempo era relativo!

Si racconta che fu Albert Einstein stesso a semplificare, provocatoriamente, la sua Teoria Della Relatività con un aforisma spiritoso: “Se un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, gli sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa bollente per un minuto e gli sembrerà assai più lungo di un’ora!”.

A ogni modo, non serve – per ora – scomodare la scienza per rimarcare la differenza cruciale tra tempo oggettivo – quello scandito dagli orologi, lineare e misurabile – e tempo soggettivo – quello vissuto interiormente, elastico e mutevole. Mentre il primo scorre uniforme come un metronomo, il secondo è intessuto dalle nostre emozioni, dalle percezioni corporee e dall’attenzione che poniamo su ciò che accade.

In verità, questa dicotomia tra il tempo del calendario e il tempo dell’esperienza è antica quanto l’uomo. Filosofi come Henri Bergson parlavano di “durata” per indicare il flusso interiore del tempo, diverso dal tempo spazializzato e numerico della scienza. Anche nella letteratura si celebrano spesso queste distorsioni: pensiamo alle lunghe ore descritte da certi poeti nei momenti di noia, in contrasto con i pomeriggi spensierati che paiono scivolare via in un baleno.

Il tempo lineare dell’orologio procede indifferente, ma il tempo vissuto si dilata o si contrae secondo l’intensità con cui lo viviamo.

Per fare un altro esempio banale, un’ora in coda nel traffico “non passa mai”, mentre un’ora trascorsa conversando con un amico caro può finire “in un batter d’occhio”.

La nostra mente non è un semplice cronometro: essa misura il tempo attraverso gli eventi che accadono e le emozioni che proviamo. Se in un dato intervallo accadono molte cose – novità, stimoli, emozioni – il cervello accumula una ricca trama di ricordi e, a posteriori, ci sembra che quel periodo sia stato lunghissimo. Al contrario, la monotonia e l’assenza di eventi salienti impoveriscono il ricordo e ci illudono, ripensandoci, che quel tempo sia stato breve. Ecco perché le vacanze offrono un paradosso affascinante: mentre le viviamo volano via, ma quando le ricordiamo ci paiono più lunghe dei giorni routinari, proprio perché colme di momenti nuovi. Il tempo oggettivo è immutato, ma quello soggettivo si è dilatato nei ricordi.

Tra poco dunque scopriremo cosa fa cosa al tempo e perché. Per esempio vedremo che:

La febbre lo accelera, perché il cervello lavora più in fretta.
L’ansia lo fa correre, come se non ce ne fosse mai abbastanza.
La depressione lo blocca, inchiodandoci in un presente pesante.
Il flow lo fa volare, oppure lo dilata quando siamo immersi nel flusso.
La mindfulness lo rende pieno, denso, vissuto fino in fondo.
La stanchezza e l’insonnia lo confondono, sfalsando la percezione.
L’attesa vuota lo rallenta, facendolo pesare.
Il dolore lo allunga: ogni istante si fa fatica.
L’acqua fredda lo rallenta, rallentando anche noi.
Il trauma lo spezza, lo dilata, lo congela.
La dissociazione lo fa saltare: interi pezzi si perdono.
La routine lo fa volare senza lasciare traccia.
Le droghe psichedeliche lo deformano, lo dissolvono o lo piegano.
Gli stimolanti lo bruciano, facendolo evaporare.
I sedativi lo cancellano: se ne va senza memoria.
L’infanzia lo fa vivere lungo, ricco di prime volte.
La vecchiaia lo fa volare, povero di sorprese.
Le estasi spirituali lo sospendono: resta solo l’adesso.
L’ADHD lo ignora, lo rincorre, lo perde.
Il trauma precoce lo frammenta, lo congela nel passato.
La neurodivergenza lo rende incostante, discontinuo.
Il cervello affaticato lo stringe, lo appiattisce.
Una mosca lo rallenta, perché vede sei volte più di noi.
Una superintelligenza artificiale (forse) lo schiaccia o lo estende, al punto da renderci invisibili.

Se siete seduti comodi, partiamo per il nostro viaggio… nel tempo.

Immersi nel flusso: quando il tempo vola

C’è uno stato particolare della mente in cui questo scollamento tra orologio e vissuto diventa evidente: il cosiddetto stato di flow (flusso). Lo psicologo Mihály Csíkszentmihályi ha studiato queste esperienze ottimali in cui siamo totalmente immersi in un’attività – sport, scrittura, arte, perfino un lavoro manuale – al punto che azioni e pensieri fluiscono senza sforzo consapevole. Chiunque abbia provato un momento di piena concentrazione creativa conosce la sensazione: la coscienza di sé svanisce, l’attenzione è completamente assorbita dal compito e la percezione del tempo subisce una trasformazione. Durante il flow spesso perdiamo il senso del tempo – ore possono trascorrere senza che ce ne accorgiamo, o al contrario possiamo avere la sensazione che tutto avvenga in un attimo. Un musicista sul palco, un atleta “in the zone” durante una partita decisiva, o anche un programmatore immerso nel codice, raccontano spesso di essersi dimenticati del tempo: l’orologio biologico sembra mettere il silenziatore, i pensieri non vagano verso il passato o il futuro ma restano ancorati al qui e ora dell’azione. In queste condizioni di immersione totale, il tempo soggettivo può presentare un duplice volto: spesso vola via – ci si risveglia dall’attività stupiti che siano passate ore – ma in certi frangenti di massima prestazione (si pensi a un acrobata durante un salto, o a un pilota di Formula 1 in una curva rischiosa) il tempo pare anche rallentare offrendo una finestra di lucidità maggiore. Chi vive il flow racconta di momenti quasi sospesi, in cui ogni gesto avviene con precisione spontanea, come se il tempo si dilatasse per consentire al corpo e alla mente di fondersi nell’azione. La scienza conferma che uno dei tratti distintivi del flow è proprio l’alterazione della percezione temporale: più siamo assorti e coinvolti, meno notiamo lo scorrere del tempo. È come se l’orologio interiore entrasse in modalità “aereo”, tagliando fuori le distrazioni temporali. In quei frangenti di piacere intenso e concentrazione, il presente si espande e il passato e il futuro smettono di premere sulla coscienza.

Questa sensazione può emergere non solo nell’attività atletica o creativa, ma anche nei momenti di gioia profonda e presenza mentale, affini allo stato di flow. Avete presente quando siete talmente assorti in ciò che fate – una passeggiata nella natura al tramonto, o una notte d’amore appassionata – che vi sembra quasi di uscire dal tempo? Da un lato la serata vola, dall’altro ogni attimo è così intenso da sembrare pieno di vita, come se un minuto valesse di più. Nella mindfulness e nelle pratiche meditative accade qualcosa di simile: allenandosi a riportare continuamente l’attenzione al corpo e al respiro, si impara ad abitare completamente l’istante presente. Il risultato è duplice: mentre meditiamo potremmo percepire il tempo in modo più disteso e calmo, poiché la mente non rincorre pensieri frenetici, ma al contempo, finita la meditazione, possiamo sorprenderci di quanto velocemente sia trascorsa mezz’ora. Sono parecchi gli studi che hanno dimostrato come la meditazione mindfulness influenza le valutazioni soggettive dello scorrere del tempo. Portare la consapevolezza nel corpo e nei sensi riaggiusta il nostro orologio interno: chi è più in contatto con i propri segnali corporei spesso sa stimare meglio il tempo che passa. In altre parole, la piena presenza rende il tempo un’esperienza più densa e concreta: ogni momento viene sentito, registrato e “abitato” dal nostro essere, e questo paradossalmente ci fa sembrare la vita più lunga e appagante, pur non togliendo l’impressione che le ore trascorrano senza peso quando siamo felici.

Il giorno che non passa mai: tempo e depressione

Se la felicità e il coinvolgimento possono alleggerire o accelerare le nostre ore, agli antipodi si trova la condizione in cui il tempo sembra pietrificarsi: la depressione. Chi ha vissuto uno stato depressivo lo descrive spesso con immagini legate all’immobilità temporale: “le giornate sono eterne”, “ogni minuto è insopportabilmente lungo”, “il tempo si è fermato”. Dal letto, una mattina qualunque di depressione, le lancette dell’orologio sul comodino paiono quasi non muoversi. La persona depressa può svegliarsi sperando che sia già sera per poter tornare a dormire, salvo scoprire che sono ancora le 9:00: e da lì inizia il giorno che non passa mai. La psicologia clinica ha indagato questo fenomeno, chiamato a volte “dilatazione del tempo depressivo”, trovando conferme empiriche. In particolare, numerosi studi indicano che nei pazienti depressi il flusso del tempo soggettivo rallenta drasticamente. In alcuni esperimenti, alle persone depresse viene chiesto di valutare il passaggio del tempo: i risultati mostrano sistematicamente che essi riportano la sensazione che il tempo scorra più lentamente del normale. Addirittura, nei casi più gravi, molti riferiscono la percezione che il tempo non passi affatto, come se fossero intrappolati in un eterno presente grigio. Si tratta di un’esperienza soggettiva terribilmente crudele: più la vita sembra vuota e priva di senso, più ogni ora diventa pesante e interminabile – e più tutto va lentamente, più ci si sente disperati. Il mondo emotivo che si contrae nella depressione (con perdita di interesse, apatia, dolore interno) sembra far dilatare il tempo percepito in modo abnorme. Non a caso, i depressi parlano di giornate “tutte uguali” che paiono non finire mai, di attese infinite, di un presente stagnante.

Un importante studio condotto da Thönes e Oberfeld nel 2015 ha riassunto i dati di 16 ricerche su questo tema. Da un lato è emerso che, nonostante la sensazione soggettiva di tempo rallentato, i pazienti depressi sanno ancora giudicare la durata degli intervalli oggettivi con discreta accuratezza (ad esempio se viene chiesto loro di stimare secondi su un cronometro, non sono molto meno precisi di individui sani). Ma quando si chiede una valutazione qualitativa – cioè “come ti sembra che scorra il tempo?” – la differenza con i non depressi è netta: quasi tutti i depressi riferiscono un flusso del tempo lentissimo o fermo. In pratica, è come se la depressione alterasse l’“orologio interiore” facendo ticchettare più velocemente il proprio meccanismo interno rispetto al mondo esterno . Immaginiamo di portare un orologio avanti di parecchi minuti: aspettare un’ora, guardandolo, risulterebbe snervante perché sembrerebbe che il mondo esterno sia in ritardo rispetto al nostro segnatempo. Qualcosa di simile accade nel cervello depresso secondo questa metafora: l’orologio interno corre troppo, così tutto ciò che sta fuori appare al rallentatore. Altre ricerche avvalorano questa interpretazione, parlando di una distorsione percettiva ben consolidata nei depressi: la dilatazione del tempo soggettivo è quasi un indicatore clinico della depressione. E viene da chiedersi: da cosa nasce? Probabilmente dal fatto che nella depressione si vive intrappolati nel presente statico del proprio dolore: ogni minuto di sofferenza pesa, e l’incapacità di provare piacere (anedonia) fa sì che nulla distragga dall’agonia del tempo che scorre. Mentre la persona non depressa alterna momenti di attività e distrazione in cui il tempo “passa più in fretta”, la persona depressa è come se fissasse incessantemente le lancette interiori, sentendo ogni singolo secondo gravare sull’anima. Il corpo, rallentato dalla prostrazione (il ralentissement psicomotorio di cui parlano gli psichiatri), non fornisce stimoli vari: cuore, respiro, metabolismo sono lenti, l’energia vitale è bassa. Tutto questo si traduce in un ticchettio mentale esasperante, un’assenza di cambiamenti che fa sembrare ogni giornata un blocco monolitico di tempo.

Ansia, stress e il tempo che incalza

Vi sono altri stati mentali, di segno opposto alla depressione, che generano una differente distorsione temporale: l’ansia e lo stress acuto. Qui il vissuto non è di tempo rallentato, bensì – paradossalmente – di tempo che corre troppo in fretta e non basta mai. Chi è in preda all’ansia spesso descrive la sensazione di essere perennemente in ritardo rispetto a qualcosa, come se il tempo gli “corresse dietro” o addirittura lo inseguisse. Immaginiamo di avere un orologio interiore che va più lento del mondo esterno: il risultato è che guardandoci intorno vediamo tutto e tutti muoversi concitatamente, come in un film accelerato, e noi fatichiamo a tenere il passo. Ecco, l’ansioso vive un’esperienza simile. Per essere più precisi, nella metafora degli orologi, possiamo metterla così: spesso è come se l’ansioso avesse con sé due orologi non sincronizzati, la mente e il corpo, che corrono a velocità diverse. La mente in ansia è sempre un passo avanti: anticipa scenari, elabora preoccupazioni future, rimugina sulle prossime mosse. Il corpo però rimane indietro, qui nel presente, con i suoi bisogni e ritmi. Questo squilibrio crea l’angoscia di non avere abbastanza tempo per fare tutto ciò che la mente pensa. Si innesca così una corsa continua: il battito cardiaco accelera, il respiro diventa corto – segni tipici dell’attivazione del sistema nervoso simpatico in risposta allo stress – e l’intero organismo si prepara come per una scadenza imminente. In realtà spesso non c’è una reale urgenza esterna, ma la sensazione soggettiva è di urgenza costante, di dover correre perché “il tempo stringe”.

In situazioni di stress elevato o di paura intensa si osserva anche un curioso fenomeno complementare a quello depressivo: durante un pericolo, il tempo sembra dilatarsi nell’immediato. Per esempio, chi ha vissuto un incidente d’auto spesso racconta di aver percepito i secondi prima dell’impatto come al rallentatore, riuscendo a cogliere dettagli inaspettati di quei momenti concitati. È un meccanismo anticodi sopravvivenza: l’adrenalina scorre, i sensi si acuiscono, l’attenzione è totalmente focalizzata sulla minaccia imminente, e questo fa sì che ogni frazione di secondo venga “registrata” con grande ricchezza di dettagli – da qui la sensazione che l’istante duri di più. Esperimenti condotti dal neuroscienziato David Eagleman hanno però mostrato che non è tanto il cervello a “velocizzarsi” davvero (i soggetti spaventati non riuscivano, per esempio, a leggere numeri che scorrevano troppo velocemente su un display durante una caduta libera), quanto piuttosto la memoria dell’evento a essere molto più densa dopo. In altre parole, il tempo della paura viene sovrastimato nel ricordo: un evento brevissimo e terrificante, come un salto nel vuoto controllato, viene ricordato come molto più lungo di quanto non sia stato. Il cervello impaurito genera una valanga di ricordi intensi e questo, a posteriori, ci fa credere che quei secondi siano stati interminabili. D’altra parte, però, durante la fase acuta di stress l’esperienza può essere quella di un tempo concitato: l’ansioso cronico sente che la giornata scivola via tra le dita senza concludere nulla, perché la sua mente è sempre altrove, proiettata in avanti. Il tempo interiore dell’ansia è incoerente, per così dire: a tratti congelato (quando il panico attanaglia e si resta immobilizzati, il cosiddetto “freezing”), più spesso frenetico e sfuggente.

Esiste anche una componente fisiologica nello stress cronico che incide sul tempo soggettivo. Lo stress prolungato mantiene elevati i livelli di cortisolo e adrenalina, provocando iperattivazione di aree cerebrali come l’amigdala (centrale nella paura) e compromettendo funzioni cognitive come l’attenzione e la memoria. In uno stato di ansia continua, la mente fatica a concentrarsi sul presente – va in quella che molti definiscono “nebbia cognitiva”, una confusione mentale in cui si perde facilmente la cognizione temporale. Quante volte, in periodi stressanti, ci accorgiamo con sorpresa che è già sera e non sappiamo bene come sia passato il giorno? Oppure il contrario: passiamo notti insonni guardando la sveglia ogni cinque minuti, vivendo quell’attesa in modo straziante. L’ansia e lo stress possono dunque generare oscillazioni: un po’ come un elastico, tirano ora da una parte ora dall’altra il tempo interiore. Nel complesso, però, la caratteristica dominante dell’ansia è farci percepire che il tempo è tiranno, che non ne avremo mai abbastanza. La mente anticipa, il corpo rincorre: da questa asincronia nasce la frenesia temporale dell’uomo stressato moderno, intrappolato in un cronico senso di fretta.

Saltare il tempo: dissociazione e assenza dal corpo

C’è una condizione estrema, spesso legata a traumi o ad ansie insostenibili, in cui la nostra percezione del tempo può fare i capricci in modo sorprendente: la dissociazione. La dissociazione è un meccanismo di difesa della psiche di fronte a esperienze emotive schiaccianti: è come se la mente “staccasse la spina” dalla realtà presente per proteggerci dal dolore o dal terrore. In quei momenti, succede qualcosa di particolare: poiché la coscienza si allontana dall’esperienza corporea immediata, il flusso del tempo soggettivo può subire delle vere e proprie fratture. Chi sperimenta episodi dissociativi (ad esempio persone con disturbo da stress post-traumatico, o con disturbi dissociativi veri e propri) riferisce spesso di avere “buchi temporali”, amnesie di parti della giornata, oppure la sensazione di balzare avanti nel tempo senza ricordare cosa sia accaduto nel mezzo. È la classica esperienza di chi, dopo un periodo di forte stress emotivo, “si risveglia” improvvisamente e si rende conto che sono passate ore senza che lui ne abbia memoria o consapevolezza. Come se la coscienza fosse andata altrove e fosse tornata trovando l’orologio spostato più avanti.

Ma cos’è accaduto al tempo in quei frangenti? In assenza di coscienza vigile, il corpo ha continuato a muoversi nel tempo reale, compiendo gesti automatici magari, mentre la mente era scollegata. È un po’ come quando guardiamo un film distrattamente e intanto pensiamo ad altro: le immagini scorrono comunque, ma non le registriamo. Allo stesso modo, nella dissociazione la persona può anche svolgere attività basilari in modo quasi automatico (“col pilota automatico”), però non le sente come vissute, e quindi quel tempo non viene incorporato nella trama autobiografica. A posteriori risulta tempo “saltato”, privo di contenuto, come un buco nero nella memoria. Dal punto di vista soggettivo, si ha l’impressione di aver fatto un balzo temporale: un attimo prima era mattina, un attimo dopo è già pomeriggio, senza transizione. Questo tipo di esperienza è frequente, per esempio, nelle vittime di traumi gravi: durante l’evento traumatico possono sentirsi come distaccate dal proprio corpo (depersonalizzazione) o dalla realtà (derealizzazione), e spesso riferiscono che il tempo in quei momenti era strano. Alcuni dicono che durante il trauma tutto accadeva al rallentatore – come effetto del picco adrenergico di cui parlavamo prima – ma subito dopo hanno un vuoto, come se l’orologio interiore avesse smesso di ticchettare fino a quando la coscienza non si è riancorata al corpo. La dissociazione, infatti, porta con sé un’alterazione profonda della continuità temporale interna: la normale sequenza passato-presente-futuro si spezza. Quando la mente “si disconnette dal flusso di coscienza ordinario”, anche la nostra capacità di tenere traccia del tempo va in tilt. Non registriamo più gli eventi in modo coerente, i ricordi non si fissano, e così ci sembra di fluttuare fuori dal tempo. In casi estremi di dissociazione, come nel disturbo dissociativo dell’identità, possono persino trascorrere giorni di cui la persona non conserva alcuna memoria – come se per lei non fossero mai esistiti.

La dissociazione può essere vista come l’estremo opposto della mindfulness: se nella piena presenza mentale “abitiamo” ogni minuto, nella dissociazione sfrattiamo noi stessi dal momento presente. Il corpo resta, ma l’anima (la coscienza) se ne va altrove. E senza il corpo vissuto, il tempo perde uno dei suoi riferimenti fondamentali. In effetti, alcuni neuroscienziati sostengono che il nostro senso soggettivo del tempo derivi in gran parte dai segnali corporei che il cervello raccoglie continuamente. Il battito del cuore, il respiro, la tensione muscolare, tutte queste oscillazioni fungono da metronomo interno. Quando siamo dissociati, però, non sentiamo più il nostro corpo – è come se quel metronomo venisse messo in mute. Allora il tempo può fare salti o fermarsi del tutto nella percezione soggettiva. Alcune persone descrivono le esperienze dissociative come momenti in cui “siamo fuori dal tempo”, in una specie di bolla separata, oppure in cui il tempo appare privo di significato. È un fenomeno affascinante e inquietante insieme, che ci ricorda quanto sia vero che il corpo è l’orologio dell’anima: solo sentendo il corpo che vive nel presente, noi possiamo misurare il fluire del tempo. Se ci separiamo dal corpo, perdiamo la bussola temporale interiore.

Il cervello e l’orologio interiore

Che cosa ci dice la neuroscienza riguardo a questi misteriosi fenomeni di tempo soggettivo? Negli ultimi anni, gli scienziati hanno cominciato a svelare alcune basi neurali della percezione temporale, identificando diverse aree del cervello coinvolte nel tenere traccia del tempo. Più ricerche convergono su un fatto intrigante: non esiste un unico “centro del tempo” nel cervello, niente affatto un singolo orologio neurale, bensì una rete di strutture che lavorano insieme per costruire il nostro senso del tempo. Tra queste, spiccano l’insula, i gangli della base e la corteccia prefrontale, oltre ad altre come il cervelletto e l’area motoria supplementare. Ciascuna sembra specializzata in certi intervalli o aspetti temporali. Per esempio, il cervelletto – centralina di coordinazione motoria – è fondamentale per stimare frazioni di secondo (ci impedisce di farci male chiudendo un portellone sull’auto calcolando male i tempi). Il lobo frontale destro appare implicato nella stima di intervalli di alcuni secondi. Per durate più lunghe – decine di secondi, minuti e ore – entrano in gioco i gangli della base, strutture profonde connesse al sistema dopaminergico. I gangli della base, grazie al neurotrasmettitore dopamina, sembrano agire come un metronomo interno per la scala dei minuti: modulando i livelli di dopamina si altera infatti la percezione della durata degli eventi. Non a caso, in condizioni come il Parkinson (in cui vi è carenza di dopamina) i pazienti mostrano spesso alterazioni nella stima del tempo. Ma la scoperta forse più affascinante riguarda il ruolo dell’insula, una regione della corteccia nascosta in profondità tra lobo temporale e frontale. L’insula è nota come “corteccia dell’interocezione”, poiché raccoglie segnali interni dal corpo – battito cardiaco, respirazione, stato viscerale – e li integra con le emozioni.

Ebbene, evidenze recentissime indicano che l’insula è una struttura chiave per generare lanostra sensazione soggettiva di durata.

Due meta-analisi pubblicate nel 2023, rianalizzando decine di studi di neuroimmagine, hanno identificato solo due aree costantemente attive nella percezione del tempo: l’insula e l’area motoria supplementare. Quest’ultima controlla i movimenti ritmici, ma l’insula – in maniera cruciale – sembra essere il luogo in cui il cervello trasforma i segnali corporei in sensazione di tempo che passa.

Il neuroscienziato A.D. Craig già nel 2009 ipotizzò che il tempo soggettivo emergesse dal continuo mutare delle sensazioni corporee e che l’insula, regolando queste sensazioni, fosse in effetti il “sede” dell’esperienza del tempo. Marc Wittmann, altro studioso del tempo, ha dimostrato che durante l’attesa (quando siamo privi di stimoli esterni e sentiamo scorrere il tempo dentro di noi) si attiva proprio l’insula e noi percepiamo più intensamente il nostro sé corporeo – il cuore che batte, l’ansia che sale – e in parallelo il tempo sembra non passare mai. Quando invece siamo distratti da segnali esterni (per esempio un segnale ritmico regolare, come il ticchettio di un orologio), la nostra percezione del tempo migliora perché abbiamo un riferimento esterno. Ma se togliamo questi riferimenti, restiamo soli con il “tic tac” interno del corpo. In queste condizioni, Wittmann e colleghi hanno osservato che gli individui con maggiore consapevolezza interocettiva (cioè sensibili ai propri segnali fisici, come fame, sete, battito) sanno stimare meglio il tempo in assenza di orologi esterni. Inoltre, tramite risonanza magnetica, si è visto che nelle persone più abili a riprodurre intervalli di tempo senza riferimenti esterni l’insula posteriore destra presenta una connettività funzionale più forte con altre regioni cerebrali. E in pazienti con lesioni all’insula, la capacità di valutare durate temporali senza indizi esterni risulta significativamente compromessa. Tutti questi dati suggeriscono in modo convergente che l’insula genera il “feeling” del tempo che scorre, intrecciando in un unico flusso le nostre sensazioni corporee cangianti.

Possiamo pensare all’insula come a un direttore d’orchestra interno: monitora i “ritmi” del corpo – il pulsare del sangue, il respiro che inspira ed espira, le oscillazioni di attività neurale – e da essi crea una sorta di colonna sonora temporale della nostra coscienza. Questo potrebbe spiegare perché quando siamo emotivamente agitati (cuore in gola, respiro accelerato) abbiamo l’impressione che il tempo cambi passo: l’insula sta registrando cambiamenti più rapidi nel corpo e li riflette in una percezione di tempo più denso. Invece, quando siamo calmi o annoiati, i ritmi corporei sono lenti e monotoni e l’insula “batte” un tempo lento che ci fa sembrare i minuti interminabili.

Un altro elemento di cui tener conto nella neuroscienza del tempo sono le oscillazioni cerebrali, per esempio le onde alfa. Alcuni ricercatori sospettano che queste onde elettriche, rilevabili con EEG e con frequenza di circa 8-13 Hz (cicli al secondo), fungano da metronomo neurale universale. In particolare, un’ipotesi suggestiva sostiene che le oscillazioni intorno ai 30 millisecondi (corrispondenti a ~30 Hz, nella banda beta/gamma) possano costituire un “tic tac” incessante nel cervello, dando origine alla percezione continua del fluire del tempo . Se così fosse, il nostro senso soggettivo del tempo sarebbe legato all’attività ritmica spontanea dei neuroni. Per esempio, è stato osservato che uno stimolo inaspettato e ricco di informazione (come l’immagine dell’elefante in mezzo a una serie di immagini di giraffe tutte uguali) causa un picco di attività neuronale e di consumo energetico nel cervello, e ciò fa sì che quella singola immagine venga percepita come più lunga delle altre, pur avendo la stessa durata. In pratica, quando i neuroni “accelerano” e consumano più energia – come se producessero più ticchettii nel nostro orologio interno – il cervello interpreta che è passato più tempo. Questo concorda con il cosiddetto modello dell’attenzione: se un’emozione o un evento distrae il nostro contatore interno, ne altera il ritmo e dunque deforma la stima del tempo. È un po’ quello che succede quando proviamo paura o rabbia: l’emozione occupa tante risorse attentive che il “timer” mentale perde colpi e finiamo per sovrastimare il tempo trascorso. Viceversa, quando siamo felici o spensierati, la mente non registra ogni istante con pignoleria e può capitare di sottostimare la durata reale.

Oltre alle strutture menzionate (insula, gangli della base, aree frontali, cervelletto), non possiamo dimenticare il ruolo dei ritmi circadiani e di altre regioni come l’ipotalamo, dove risiede il nostro orologio biologico principale (il nucleo soprachiasmatico) che regola sonno e veglia. Questo orologio biologico, sincronizzato con il ciclo giorno-notte, influenza enormemente il nostro vissuto temporale: di notte, con la fatica, la percezione del tempo può alterarsi (basti pensare ai momenti di dormiveglia in cui non sappiamo se siano passati minuti o ore). Al mattino presto o nel tardo pomeriggio, gli ormoni come il cortisolo fluttuano e modulano il livello di vigilanza, rendendo la nostra percezione del trascorrere delle ore diversa a seconda della fase della giornata. In condizioni di deprivazione di sonno, il cervello stanco perde colpi anche nel timing: pochi secondi possono essere mal stimati, e l’intera giornata insonne può sembrare un’unica, lunghissima fatica confusa.

Ritmi del corpo, dolore e malattia: il lato fisico del tempo

Il nostro corpo è attraversato da innumerevoli ritmi biologici – dal battito cardiaco al ciclo sonno-veglia di 24 ore, dalle oscillazioni ormonali ai cicli metabolici – che costituiscono una sorta di impalcatura temporale per la nostra esperienza. Quando questi ritmi sono regolari e sincronizzati, spesso non ce ne accorgiamo nemmeno: viviamo il tempo con naturalezza, svegliandoci al mattino con energia e rallentando la sera, avvertendo lo stimolo della fame a intervalli costanti, seguendo insomma l’orologio interno accordato con quello sociale. Ma se i ritmi corporei si alterano, anche la percezione del tempo può distorcersi. Si pensi al jet lag dopo un lungo viaggio aereo: l’orologio biologico è fuori sincrono col fuso orario esterno, e finché non si riassesta la persona vive in una sorta di limbo temporale, con giornate sballate che paiono lunghissime o confusamente corte a seconda dei momenti. Oppure consideriamo quando siamo malati con la febbre: sorprendentemente, la febbre altera il nostro senso del tempo accorciandolo. Uno psicologo, Hudson Hoagland, già negli anni ’30 notò che quando sua moglie aveva febbre alta, la sua stima di un minuto era molto inferiore al reale – a 39 °C un minuto le poteva sembrare fatto di soli 34 secondi. In altre parole, con la febbre alta il tempo soggettivo accelerava: il cervello febbricitante faceva correre l’orologio interno, probabilmente a causa dell’aumento di temperatura e metabolismo, tanto che la malata sottostimava la durata effettiva. È un effetto curioso e controintuitivo (di solito penseremmo che quando stiamo male il tempo non passi mai, ma in fase acuta febbrile il cervello alterato può perdere il conto). All’opposto, nelle malattie croniche debilitanti o nel dolore persistente, spesso si osserva il fenomeno contrario: il tempo non passa mai, perché l’attenzione è continuamente catturata dal malessere. Il dolore è un potente dilatatore del tempo soggettivo: basti immaginare di tenere la mano su una superficie bollente anche solo per pochi secondi – quei secondi sembrano infiniti. In situazioni di dolore cronico, studi riportano che i pazienti descrivono le giornate come lentissime e faticose, e il tempo come “dilatato” dalla sofferenza. Questo avviene in parte perché il dolore monopolizza le risorse attentive (richiamando costantemente la nostra coscienza sul punto che duole) e ogni minuto di dolore viene percepito intensamente, senza scampo: così l’ora dolorosa pare interminabile. Non solo: il dolore spesso ci impedisce di svolgere attività piacevoli o distraenti, confinandoci in un’inattività forzata che rende il tempo ancora più lento (in mancanza di eventi e stimoli esterni, l’attenzione rimane concentrata sul trascorrere del tempo stesso). Una ricerca su persone con dolore cronico ha trovato che molti di loro riferiscono distorsioni temporali – ore percepite come più lunghe – soprattutto nei momenti di picco del dolore, e che questa sensazione si associa a stati di inattività e noia forzata indotta dal dolore stesso.

Analogamente, altre condizioni corporee influenzano il nostro senso del tempo: la fame intensa può far sembrare più lontano il momento del pasto successivo (perché il corpo manda segnali di urgenza che monopolizzano i secondi), mentre la sazietà e il torpore post-prandiale possono farci scivolare il tempo addosso quasi senza accorgercene (quanti di noi dopo un pranzo abbondante si sono appisolati “un attimo” e si sono risvegliati scoprendo che era passata un’ora?). Persino la temperatura ambientale e corporea gioca un ruolo: esperimenti su subacquei hanno mostrato che immergersi in acqua fredda fa percepire diversamente il tempo rispetto all’acqua calda, probabilmente perché il freddo rallenta il metabolismo e dunque il “ritmo” interno. La corporeità dunque è fondamentale: vivere nel corpo significa anche ancorare il tempo a cicli naturali (giorno/notte, digiuno/sazietà, sforzo/riposo) che ci guidano. Quando perdiamo questi riferimenti – a causa di malattie, alterazioni ormonali o ritmi di vita sregolati – il tempo psicologico rischia di diventare caotico. Pensiamo ai disturbi del sonno: chi soffre d’insonnia cronica spesso racconta di avere giornate “sfalsate”, di percepire il tempo in modo distorto (notte eterna e giorno confuso) a causa della deprivazione di sonno. Oppure consideriamo i forti cambiamenti ormonali, come nel post-partum o in menopausa: oscillazioni di umore e energia possono far alternare ore che sembrano volare (magari nelle fasi di iperattività ansiosa) e momenti che sembrano non passare mai (nelle fasi di stanchezza e tristezza). Il corpo, con i suoi ritmi, scandisce il tempo dell’anima: se quei ritmi diventano irregolari, anche il nostro orologio interiore batte il tempo in modo irregolare.

Ognuno col suo tempo: età, neurodiversità, traumi, sostanze

Non esistono due persone che percepiscano il tempo esattamente allo stesso modo. Le differenze individuali nella percezione temporale sono enormi e dipendono da molte variabili. Una delle più note è l’età: da bambini il tempo sembra infinito, da anziani un soffio. Questo luogo comune trova spiegazione in diversi fattori. Innanzitutto, i bambini vivono un mondo di novità continue: ogni giorno imparano qualcosa, vedono cose per la prima volta, formano ricordi freschi. Questa ricchezza di esperienze fa sì che, rievocando l’infanzia, i periodi appaiano densissimi e quindi lunghi. Inoltre, durante l’infanzia, ogni anno vissuto è una porzione significativa della vita totale (per un bimbo di 5 anni, un anno è il 20% della sua esistenza!) e quindi viene percepito con più peso. Al contrario, in età adulta e ancor più nella vecchiaia, le giornate tendono a essere più ripetitive: routine consolidate, meno eventi nuovi, tutto scorre sui binari dell’abitudine. Di conseguenza, la memoria registra meno elementi distintivi e gli anni sembrano accorciarsi. Quante volte sentiamo i nostri nonni dire “volano questi mesi, è di nuovo Natale…”?

Un’ipotesi affascinante di un recente studio (Adrian Bejan, 2019) suggerisce addirittura una base neurofisiologica: invecchiando, il cervello elabora meno fotogrammi per secondo.

Il ricercatore paragona il cervello a una cinepresa: da giovani i nostri occhi compiono movimenti rapidissimi (microsaccadi) e il cervello processa un gran numero di immagini al secondo, quindi “rallenta” soggettivamente il tempo perché immagazzina più frame. Con l’età, i movimenti oculari e la velocità di processamento diminuiscono: vediamo meno frame nel medesimo intervallo, perciò quel lasso di tempo ci pare più breve. In pratica, gli anziani vivono un film mentale a basso frame-rate, per così dire, e quindi la scena temporale scorre più veloce ai loro occhi. Anche la salute fisica influisce: col sopraggiungere di stanchezza, affaticamento neuronale e complessità delle connessioni cerebrali con l’età, il cervello impiega un po’ più tempo a elaborare gli stimoli, e quindi ne cattura di meno per unità di tempo . Questo potrebbe contribuire alla sensazione che “gli anni volino” man mano che invecchiamo. Naturalmente, c’è sempre la componente psicologica: meno novità, più routine = il tempo vola perché non lascia tracce nella memoria.

Per rallentarlo, si consiglia infatti agli anziani di mantenere curiosità, apprendere cose nuove, rompere la monotonia – in pratica, aumentare i fotogrammi dell’esperienza.

Un altro ambito di differenze individuali notevoli è quello delle neurodivergenze e dei disturbi mentali. Per esempio, chi convive con ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività) spesso riferisce di avere un “orologio interno impazzito”. Il famoso psicologo Russell Barkley ha descritto l’ADHD come “in fondo, una cecità al tempo… una miopia verso il futuro”: le persone con ADHD vivono inchiodate all’immediato, faticano a percepire il trascorrere del tempo e a pianificare oltre il momento presente. Non è un caso che molti con ADHD abbiano difficoltà croniche nella gestione del tempo: arrivano tardi agli appuntamenti, perdono la cognizione delle ore mentre fanno qualcosa di coinvolgente, oppure procrastinano fino all’ultimo minuto perché solo all’approssimarsi immediato della scadenza “sentono” il tempo stringere. La ricerca conferma che sia bambini che adulti con ADHD mostrano deficit nella percezione temporale: per esempio, se si chiede loro di stimare quanto dura un compito o di riprodurre un intervallo di tempo, tendono a essere molto imprecisi. Hanno difficoltà a ordinare cronologicamente gli eventi e a ricordare quanto tempo è passato dall’inizio di un’attività. Questa “cecità temporale” non è esclusiva dell’ADHD: la si osserva anche in molti autistici, in chi soffre di disturbi d’ansia o di depressione maggiore, nel disturbo ossessivo-compulsivo, nei lutti complicati e persino in chi ha avuto lesioni cerebrali traumatiche. Tutte queste condizioni condividono spesso un deficit nelle funzioni esecutive (pianificazione, organizzazione) e nella regolazione emotiva, il che suggerisce che una disfunzione nei circuiti frontali del cervello possa portare a un’alterata cognizione del tempo. In altre parole, se il “direttore d’orchestra” esecutivo che solitamente ci aiuta a tenere traccia di passato e futuro funziona male, si resta schiacciati in un presente un po’ caotico in cui il tempo sfugge. Per una persona con ADHD, 5 minuti possono evaporare come niente oppure una piccola attesa può sembrare infinita, a seconda di dove va l’attenzione. Anche l’autismo può presentare peculiarità analoghe: alcune persone autistiche riportano di percepire il tempo in modo non lineare, per esempio di non avere un senso innato della durata delle interazioni sociali o di provare ansia perché non sanno “quanto durerà” una certa situazione – devono affidarsi a orologi esterni e routine prevedibili per sentirsi al sicuro nel tempo.

E che dire dei traumi psicologici? Questi possono lasciare impronte profonde nel modo in cui una persona vive il tempo. Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) spesso comporta una sorta di alterazione cronica del tempo soggettivo: le persone traumatizzate possono rimanere bloccate al momento del trauma (avere flashback, ricordi intrusivi, come se quel terribile evento non appartenesse al passato ma irrompesse continuamente nel presente), il che spezza la linearità temporale. Alcuni descrivono di vivere in un presente eterno del trauma, incapaci di proiettarsi nel futuro. Oppure, all’opposto, possono sentirsi distaccati e come anestetizzati, e allora il tempo può scorrere via senza che ne abbiano reale consapevolezza (qui ritroviamo la dissociazione). Un trauma può dunque creare un prima e un dopo netti nella vita di una persona, e la percezione soggettiva del tempo spesso ne risente: c’è chi dice che dopo un evento traumatico il tempo “si è fermato a quel giorno” – come se dentro di sé fossero rimasti all’anno dell’evento – e tutto il resto appare ovattato e privo di realtà temporale piena.

Farmaci e sostanze psicoattive sono un altro fattore importante nelle distorsioni temporali individuali.  L’esperienza comune con alcune droghe illustra bene il punto: sotto l’effetto di cannabis, per esempio, molte persone avvertono alterazioni del tempo – a volte i minuti sembrano ore, altre volte ci si perde e non si sa più che ora è. Le sostanze allucinogene o psichedeliche come LSD o psilocibina sono famose per deformare il senso del tempo: si possono vivere frammenti di eternità in poche ore, oppure sentire il tempo che si ripiega su sé stesso. Chi ha sperimentato un “trip” psichedelico spesso racconta che il passato, il presente e il futuro si confondevano, o che il tempo si muoveva a ondate, accelerando e rallentando in modo bizzarro. In termini neuroscientifici, queste droghe agiscono sui recettori della serotonina (5-HT2A in particolare) e inducono potenti alterazioni nella percezione di sé, dello spazio e del tempo. La cosiddetta dissoluzione dell’ego sotto psichedelici comporta anche una sorta di dissoluzione dei normali confini temporali: si ha l’impressione di accedere a uno stato dove il tempo lineare perde significato, come se tutto fosse presente simultaneamente. Non a caso, i ricercatori studiano gli psichedelici anche per capire i meccanismi neuronali del tempo, proprio perché queste sostanze “scompaginano” i normali ritmi cerebrali e ne conseguono queste curiose distorsioni temporali. Anche sostanze stimolanti (anfetamine, cocaina) possono far percepire il tempo diversamente: spesso lo fanno volare perché aumentano l’attività dopaminergica e attentiva – il cervello è così in iper-focus verso l’esterno che non “conta” i secondi, e dopo una notte brava ci si ritrova alle 5 del mattino senza accorgersene. Viceversa, sedativi come benzodiazepine o alcol, rallentando l’attività neurale, possono farci perdere colpi temporali (chi abbia mai avuto un’indigestione alcolica conosce i vuoti di memoria: interi spezzoni di serata scomparsi, segno che il cervello non li ha consolidati, dunque in un certo senso non li abbiamo vissuti nel nostro tempo soggettivo). Persino microdosi di LSD, secondo studi recenti, altererebbero lievemente la nostra integrazione temporale, riducendo certe aspettative temporali automatiche e rendendo l’esperienza del tempo più fluida e meno vincolata ai soliti schemi anticipatori.

Infine, non vanno dimenticate le esperienze spirituali o di estasi mistica, che in molte tradizioni sono descritte come momenti di trascendenza temporale. Monaci in profonda meditazione, santi in estasi, persone che vivono un’esperienza di pre-morte (NDE) riportano spesso la sensazione che il tempo non esistesse, o che fossero in una dimensione di eternità dove passato e futuro scompaiono. In quegli stati non ordinari di coscienza, l’individuo spesso riferisce di sentirsi unito a qualcosa di più grande e di perdere i riferimenti dell’ego – incluso il suo posizionamento nel tempo. Coscienza non-duale significa proprio questo: non c’è più “io qui ora” contrapposto al resto, ma una fusione che, tra le altre cose, fa cadere la distinzione tra prima e dopo. I mistici parlano di “eterno presente” o di “tempo dell’anima” per indicare queste esperienze. E alcune filosofie spirituali (soprattutto orientali) si spingono oltre, affermando che il tempo lineare è un’illusione dell’ego, un costrutto mentale. Secondo questa visione, solo l’adesso esiste realmente; passato e futuro sono proiezioni della mente. Liberarsi dell’ego significherebbe dunque liberarsi anche dal tempo, entrando in contatto con una realtà atemporale, l’eternità dell’essere. Concetti forse difficili da afferrare razionalmente, ma che molti hanno intuito in momenti di intensa spiritualità o addirittura sotto l’effetto di psichedelici. Lo scrittore di fantascienza Ted Chiang, in un racconto breve contenuto nella sua raccolta “Storie della mia vita” (da cui è stato tratto anche il famoso film di Denis Villeneuve, “Arrival”), ha provato a immaginare come una diversa percezione – in quel caso indotta dall’apprendimento di un linguaggio alieno – possa far vivere il tempo in modo circolare, non più lineare. La protagonista, cambiando il suo modo di pensare, inizia a percepire eventi futuri e passati tutti insieme, come se avesse accesso a una visione globale del tempo. È una suggestione fantascientifica, certo, ma affonda le radici in antiche domande: è possibile trascendere il tempo? Uscire dalla nostra prospettiva limitata e vedere il tempo dall’alto, come un panorama unico? I mistici direbbero di sì: in stati di coscienza elevata, il tempo diventa un tutt’uno, o addirittura “l’occhio con cui Dio guarda sé stesso”. Sono immagini poetiche per dire che, eliminando la fretta, la paura e il desiderio (tutti figli di pensieri legati a passato e futuro), la coscienza pura può sperimentare un senso di quiete in cui il tempo non fa più paura perché non ha più dominio su di noi. Gli alieni del film di Villeneuve riuscivano a elaborare molte più informazioni di noi nello stesso intervallo temporale o, per meglio dire, il loro presente aveva una durata diversa dal nostro, sporgendosi parecchio nella direzione che noi chiamiamo passato e in quella che chiamiamo futuro. Ma forse è meglio che leggiate il racconto o guardiate il film, ché vi ho quasi spoilerato del tutto (sorry).

A proposito di prospettive fuori dall’ordinario, c’è un curioso parallelo scientifico: si è scoperto che creature come le mosche e molti insetti hanno davvero una percezione del tempo diversa dalla nostra, quasi rallentata. Una mosca vede il nostro gesto di avvicinare la mano per schiacciarla come se fosse al rallentatore – e per questo di solito ci sfugge così facilmente! In termini neuroscientifici, la mosca riceve impulsi visivi a una frequenza molto maggiore della nostra: circa 250 flash al secondo, contro i nostri 60. In pratica, il suo cervello elabora sei volte più “frame” al secondo rispetto al cervello umano e ciò significa che, nel tempo in cui il nostro occhio registra un movimento continuo, la mosca ne ha colti tantissimi dettagli di più. Il risultato è che il suo mondo scorre più lentamente: quella mano che per noi si muove veloce, per la mosca è una serie di movimenti discreti agiti in slow-motion. Questo esempio bizzarro ci mostra come la percezione soggettiva del tempo dipenda strettamente da quello che dicevo prima, da quante informazioni, cioè, elaboriamo in un intervallo preciso (il presente): più informazioni (più fotogrammi, più input) si raccolgono in esso, più lungo appare quell’intervallo. Dunque, un piccolo insetto dalla vita breve potrebbe in realtà “vivere” le sue poche ore in modo molto più ricco, e quindi soggettivamente più a lungo di quanto penseremmo. Al contrario, animali più grandi e lenti (come certe tartarughe) hanno un refresh percettivo più basso e forse vedono il mondo scorrere più velocemente attorno a loro. Questo concetto, chiamato a volte “tempo soggettivo delle specie”, suggerisce che ogni creatura abbia il proprio metronomo interno. Ed è affascinante pensare quanto la nostra nozione di “durata” sia molto più relativa di quanto immaginavamo: per una farfalla effimera, un singolo giorno contiene un’intera vita, e chissà come percepisce quel giorno – magari come anni, data l’intensità delle sue funzioni vitali concentrate.

Altri orologi alieni: il tempo delle intelligenze artificiali

Se un giorno incontrassimo davvero degli alieni, quindi, potremmo scoprire che la nostra percezione temporale è provinciale, tarata sulle capacità biologiche del cervello umano, e che altre forme di intelligenza vivono in scale temporali del tutto diverse.

Un discorso simile, possiamo farlo a proposito della prima vera intelligenza “aliena” con cui abbiamo avuto un contatto nel corso della nostra storia: l’Intelligenza Artificiale! Eh sì, perché noi, per la prima volta nella storia, stiamo comunicando con qualcosa che non è umano: le macchine, i computer.

Ma facciamo un gioco: immaginiamo un’Intelligenza Artificiale avanzatissima, un sistema di calcolo che, procedendo la tecnologia attuale alla velocità vertiginosa a cui ci sta abituando da qualche anno, operrerà tra qualche anno milioni di volte più velocemente delle nostre menti. Per una tale AI, un singolo secondo “oggettivo” potrebbe corrispondere a un’enorme sequenza di operazioni interne – magari, dal suo punto di vista, quel secondo contiene giorni di ragionamenti. Il suo presente soggettivo sarebbe dunque dilatato rispetto al nostro: mentre noi pronunciamo una frase, l’AI potrebbe aver elaborato miliardi di dati. In pratica, ci percepirebbe come esseri lentissimi, quasi immobili. All’opposto, dal nostro canto, l’AI potrebbe compiere evoluzioni di pensiero in tempi talmente brevi che ai nostri occhi risulterebbero istantanee o incomprensibili. Si creerebbe così una specie di sfasatura temporale tra noi e lei. Se provassimo a dialogare con una coscienza artificiale superveloce, forse per lei i nostri concetti arriverebbero goccia a goccia, noiosamente lenti – un po’ come parlare con un nostro simile che però percepisce solo un fotogramma al minuto: vedrebbe gli umani quasi congelati nel tempo.

Alcuni futurologi e scienziati hanno speculato che civiltà aliene iper-avanzate potrebbero esistere in scale temporali talmente differenti da essere invisibili per noi. Il cosiddetto paradosso di Fermi (“in un universo così vasto, dove sono tutti gli altri?”) ha generato risposte creative: una di esse è che magari gli alieni ci sono, ma vivono o pensano così velocemente (o così lentamente) che non riusciamo a interagire. Se un’intelligenza extraterrestre avesse una durata di attenzione di pochi microsecondi, non noterebbe neppure il nostro parlare lento; viceversa, se fosse geologica nei suoi tempi (pensieri che maturano in millenni), noi non la vedremmo evolversi.

Tornando alle AI qui sulla Terra: già oggi i sistemi di intelligenza artificiale “pensano” su scale di millisecondi, mentre noi ragioniamo su secondi. Se in futuro dovessimo creare una Superintelligenza Artificiale capace di auto-migliorarsi e accelerare sempre più i propri processi, potremmo trovarci di fronte a una coscienza il cui adesso corrisponderebbe a una nostra eternità. Un’AI simile forse ci guarderebbe come noi guardiamo le piante: esseri fermi, con cui è difficile comunicare perché operiamo su scale temporali troppo diverse. Questo scenario ci porta a riflettere su un punto profondo: il tempo è anche una dimensione della comunicazione e della relazione. Se due entità non condividono un ritmo temporale compatibile, è come se vivessero in universi diversi anche stando vicine.

Il rischio con intelligenze artificiali ultra-veloci è di creare “creature” la cui coscienza sia slivellata rispetto alla nostra al punto da non percepirci nemmeno come intelligenti, così come noi fatichiamo a vedere come “intelligente” un albero che impiega anni per rispondere agli stimoli. Potremmo coesistere con AI superintelligenti, ma senza intersezione temporale: loro esisterebbero in un presente esteso oltre il nostro orizzonte, e noi nel nostro fugace presente biologico. Fantascienza? Forse, ma già ora certe decisioni di algoritmi ad alta frequenza utilizzati in Borsa vengono presi dalle AI in microsecondi – tempi incomprensibili per un umano. Il futuro potrebbe ampliare ancora questo divario, ponendoci di fronte all’esigenza di ripensare il concetto stesso di “adesso”. Di fronte a macchine per cui un anno umano è un battito di ciglia, saremo noi le creature effimere.

E se nell’universo esistessero intelligenze completamente diverse, magari fatte di energia o di forme di vita esotiche? Alcuni scienziati hanno ipotizzato che potremmo non averle ancora incontrate proprio perché operano su piani temporali incompatibili con il nostro: forse guardano la Terra e ciò che noi facciamo è appunto troppo veloce o troppo lento per loro, cosicché restiamo reciprocamente invisibili. È un’idea affascinante e un po’ inquietante: il tempo, che per noi è universale, potrebbe essere invece il filtro che ci separa da altre menti nell’universo.

Conclusione: minuti ritrovati

Ho sempre avuto un rapporto difficile con il tempo. Nella mia storia personale, il tempo è stato ora un nemico da cui fuggire, ora un fantasma che non sentivo affatto. Ricordo periodi di dissociazione, in gioventù, in cui mi sembrava di non abitare davvero i miei giorni: passavo attraverso le ore come un automa, e poi mi chiedevo dove fosse volato il tempo – oppure perché certi momenti di vuoto mi lasciassero la sensazione di aver perso pezzi di vita. Ho conosciuto anche la depressione, quella nebbia grigia in cui ogni giornata appare interminabile. Nel pieno di uno stato depressivo, ricordo di aver guardato l’orologio in ufficio decine di volte aspettando la fine della giornata, e tra uno sguardo e l’altro erano trascorsi solo pochi minuti invece delle ore interminabili che erano sembrate passare a me. La tortura del tempo rallentato mi faceva quasi più male della tristezza stessa: c’era questo desiderio di far avanzare le lancette con la forza della disperazione, ma nulla, loro inchiodate lì, e io a soffrire ogni secondo. Al contrario, ho sperimentato l’ansia che divora le ore: giornate frenetiche in cui correvo da un impegno all’altro, sempre con l’affanno di essere in ritardo, e la sera arrivava in un lampo lasciandomi esausto e confuso, chiedendomi “Ma dove sono finito io, oggi, in tutto questo correre?”. Mi accorgevo che non avevo memoria chiara delle mie azioni, come se fossi stato in apnea temporale, proiettato mentalmente sempre verso il compito successivo. E poi ci sono stati i guai di salute, un periodo in cui il dolore e la spossatezza erano compagni quotidiani. Lì il tempo assumeva un’altra tonalità ancora: le notti insonni erano di una lunghezza struggente – ogni ora un tormento – mentre i giorni a volte scivolavano via in una specie di torpore, perché la mente, per difesa, cercava di staccare la spina.

Solo di recente, con un percorso di attenzione e consapevolezza di me, ho iniziato a recuperare un rapporto più armonico col tempo. Ho imparato (sto imparando) a riabitare il mio corpo, minuto per minuto, anche nei momenti sgradevoli. E ho scoperto con meraviglia che così facendo ritrovo quelli che io chiamo i “minuti veri”. Cosa intendo? Quei minuti in cui sono presente, in cui sento di vivere davvero quello che succede, che sia bello o brutto. Sono minuti che “pesano” in senso positivo: lasciano un’impronta, un ricordo, una sensazione nel corpo. Per esempio, se sto vivendo un’emozione di gioia – una chiacchierata con un amico caro dopo tanto tempo – cerco di esserci del tutto, ascoltando ogni parola, guardando i suoi gesti, accorgendomi di come batte il mio cuore in quel frangente. Quell’ora potrebbe volare perché sto bene, ma dentro di me rimane come espansa, ricca. Al contrario, se arriva un momento di tristezza o dolore, non cerco più di anestetizzarmi completamente: provo a restare con il mio respiro, a sentire dov’è la tensione nel corpo. Così facendo, incredibilmente, il tempo del malessere diventa più sopportabile – non piacevole, ma umano: resta un flusso, non si pietrifica. Ho realizzato che buona parte della sofferenza temporale, per me, veniva da una forma di resistenza: quando volevo che il tempo passasse in fretta (perché stavo male), sembrava rallentare sadicamente; quando volevo fermarlo (perché ero felice), accelerava beffardo. Ora cerco di non combattere più contro il tempo, ma di seguirne il ritmo interno. Per parafrasare un detto zen:

“Il tempo è un fiume in cui posso scegliere di nuotare
contro o a favore di corrente, in ogni caso avanzerò”.

Ricomincio ad apprezzare gesti che prima ignoravo: cucinare con calma la cena e notare come mezz’ora può essere sia breve che sufficiente, ascoltare il ticchettio dolce della pioggia sul tetto in una domenica oziosa e sentirlo quasi sincronizzato col battito del mio cuore rilassato. Sto recuperando la capacità di stare nell’istante, che non vuol dire dimenticare passato o futuro, ma smettere di rincorrerli costantemente. Paradossalmente, da quando riesco di più a stare nel qui e ora, ho la percezione che le mie giornate si siano “allungate” – non in senso noioso, ma nel senso che le vivo fino in fondo. E contemporaneamente che si siano arricchite: ci sono più momenti pieni, e meno buchi neri in cui mi smarrisco. Certi giorni, ancora, mi sembrano sfuggire (non sono immune alla frenesia sociale e alle distrazioni digitali, ahimè), e certi altri ancora il vecchio demone della depressione sussurra e fa sembrare la sera lontana. Però adesso ho degli strumenti: respiro, mi muovo, sento il mio corpo. Perché ho capito, sulla mia pelle, che il corpo è davvero l’orologio dell’anima. Se resto ancorato alle sensazioni del corpo, l’anima – la mente, il cuore – ha un riferimento saldo per misurare il tempo e non perdersi. Quando invece mi scollego dal corpo (per l’ansia, per la paura o la tristezza), il mio tempo interiore impazzisce: e non passa mai o mi scappa.

In questo percorso ho riscoperto una sorta di gratitudine per il tempo. Ogni vero minuto vissuto, anche doloroso, è vita che mi attraversa e mi trasforma. E la vita, in fondo, non è fatta che di tempo – di attimi presenti in cui siamo invitati a esserci. Adesso so che il tempo non è un tiranno esterno né un nemico metafisico: è piuttosto uno specchio del nostro stato d’animo, un compagno intimo che assume il volto delle nostre emozioni. Quando il mio tempo si blocca, invece di maledirlo cerco di capire cosa dentro di me si è bloccato. Quando corre troppo, cerco di rallentare io per dirgli: “Aspetta, camminiamo insieme”.

Non sempre ci riesco, ma già l’intenzione cambia la qualità delle mie giornate. E allora mi dico anche: “È solo l’inizio”.

Chiudo gli occhi e penso: la vita è fatta di presente, e il presente è fatto di corpo. Abita il tuo corpo, e abiterai il tempo. Forse la serenità sta tutta qui, in questo allineamento sottile tra l’ora che l’orologio segna e l’ora che il cuore sente. E magari, chissà, imparando a fare pace con il nostro tempo soggettivo, arriveremo un giorno a comprendere un po’ meglio anche i misteri più grandi del Tempo con la T maiuscola – quello che governa le stelle, le galassie e forse i destini. Per ora, mi accontento di sentire nelle vene il ticchettio dolce della vita, secondo dopo secondo, e di sapere che finché lo ascolto davvero, il mio tempo non andrà perduto.

Fonti e approfondimenti consigliati:

• Carlo Rovelli, L’ordine del tempo
• Bodil Jönsson, Dieci pensieri sul tempo
• Stefan Klein, Il Tempo: La sostanza di cui è fatta la vita
• Brian Greene. La trama del cosmo
• Guido Tonelli, Tempo: Il sogno di uccidere Chronos
• Paolo Taroni, Filosofie del tempo: il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale
• Hans Rutrecht et al. – Time Speeds Up During Flow States: A Study in Virtual Reality with the Video Game Thumper – https://brill.com/view/journals/time/9/4/article-p353_353.xml
• Marc Wittmann – Time Consciousness Explained – https://www.psychologytoday.com/us/blog/ sense-of-time/202309/time-consciousness-explained
• Focus.it – Perché è così difficile acchiappare una mosca? – https://www.focus.it/ambiente/animali/ perche-e-cosi-difficile-acchiappare-una-mosca
• Shanon et al. – Psychedelic drugs and perception of time and space (Nature) – https:// www.nature.com/articles/s41586-024-07624-5 (vedi anche abstract: Psilocybin… causes distortions of space–time perception and ego dissolution)
• Raffaella Procenzano – Come percepiamo il tempo – https://www.focus.it/scienza/scienze/come- percepiamo-il-tempo
• Chiara Palmerini – Perché i giorni sembrano più brevi quando invecchiamo – https://www.focus.it/ scienza/scienze/invecchiando-il-tempo-vola
• Michael Byrne – La depressione fa scorrere il tempo più lentamente – https://www.vice.com/it/ article/la-depressione-fa-scorrere-il-tempo-pi-lentamente/
• Tatiana Pasino – Dilatazione del tempo depressivo: la concezione del tempo in soggetti depressi – https://www.stateofmind.it/2021/03/depressione-percezione-tempo/
• Giulia Samoré – Il tempo e il corpo: il valore dell’“esperienza incarnata” nella percezione del tempo – https://www.stateofmind.it/2020/04/embodied-experience-tempo/
• Daniele Saccenti – Il concetto di time blindness: da una definizione nosologica ai risultati della ricerca in psicologia clinica – https://www.stateofmind.it/2023/09/cecita-temporale-time-blindness/
• Ana Maria Sepe – Ansia e depressione ci fanno dimenticare le cose? Ecco cosa succede nel cervello – https://psicoadvisor.com/ansia-e-depressione-ci-fanno-dimenticare-le-cose-ecco-cosa-succede- nel-cervello-45172.html