Psicoterapia, portami via

Io lo so cosa pensate: che, siccome mi sono trovato male con molti psicologi, allora io odi la psicoterapia. In verità, in verità vi dico, è esattamente il contrario. Sono certo che ci siano molti psicoterapeuti eccezionali là fuori e uno dei miei più grandi desideri è proprio incontrarne uno.

Quindi, no, non vi ho mai consigliato di non andare in analisi o di non cominciare un percorso di psicoterapia: ho i testimoni! E anzi, se dopo che avete iniziato mi avete detto cose come: «Non mi trovo bene» oppure «Secondo me sto buttando soldi», vi ho sempre risposto: «Può essere, ma valuta bene prima di tutto che non sia una forma di resistenza». Poi vi ho spiegato, per come l’ho capito io, che cos’è la resistenza.

Allora, di che parliamo oggi?

Parliamo proprio di resistenza, in generale, e di paura del cambiamento in particolare. Perché spesso il più grande problema della psicoterapia è che quando funziona—proprio perché funziona—può provocare in chi non è pronto a “guarire” (da qualunque cosa pensi di dover guarire) una resistenza ancora più forte. Per questo parleremo anche di auto-sabotaggio, della strumentalizzazione delle parole dello psicoterapeuta e del consolidamento delle nostre maschere. E di altre cose curiose e interessantissime.

Se mi seguirete fino alla fine, mi piacerebbe molto sapere voi cosa ne pensate.

Cos’è la paura del cambiamento?

E perché spesso ci blocca proprio quando stiamo migliorando?

C’è un paradosso che si manifesta spesso nel percorso di crescita personale e in particolare nella psicoterapia: si inizia a sentire che qualcosa si muove, che un nodo profondo si sta sciogliendo, e proprio in quel momento si ha voglia di mollare tutto. Si trova una scusa, si salta una seduta, si comincia a dire che “non serve più”, o peggio ancora: “stavo meglio prima”.

Ma cosa succede esattamente?

La mente umana tende a preferire il conosciuto, anche quando è doloroso. Freud, nel ciclo di conferenze poi raccolte nell’Introduzione alla psicoanalisi, parlava di un concetto fondamentale per comprendere questi fenomeni: la resistenza. È quella forza inconscia che si oppone alla consapevolezza, che si attiva quando qualcosa di profondo sta per venire alla luce. È come se una parte di noi avesse paura di vedere davvero, di cambiare davvero. E questa parte, pur di mantenere lo status quo, si inventa qualunque cosa.

La resistenza è sorella dell’auto-sabotaggio. Molte persone, infatti, abbandonano la terapia proprio quando iniziano a fare progressi significativi. Proprio quando le difese iniziano a cedere, quando la vulnerabilità si mostra, ecco che il sistema interno si ribella. Preferisce il dolore noto alla possibilità di un bene incerto.

Il terapeuta diventa allora una figura ambigua: non più guida, ma minaccia. E la terapia non è più vista come via di guarigione, ma come luogo di destabilizzazione. Non è un errore: è il segnale che qualcosa sta davvero cambiando. Ma se non lo si riconosce, si fugge. E spesso si torna indietro, nel rifugio del malessere familiare.

La paura del cambiamento è reale, profonda, e non va sottovalutata. Perché cambiare, davvero, non è solo difficile: è spaventoso. Significa perdere vecchie certezze, abbandonare ruoli, maschere, storie su di noi che ci siamo raccontati per anni. Anche se quelle storie ci fanno male, almeno ci appartengono. Almeno sappiamo come andranno a finire.

Usare la psicoterapia “contro gli altri”

Uno degli usi più sottili e perversi della psicoterapia è quello strumentale: andarci non per guardarsi dentro, ma per trovare conferma delle proprie paure e convinzioni. Invece di mettersi in discussione, ci si presenta davanti allo psicoterapeuta con un desiderio inconfessato ma chiarissimo: ottenere una convalida. Non guarigione, non trasformazione, ma una sentenza. Un’assoluzione. Un alleato nella guerra a volte contro l’altro, a volte contro il mondo intero.

Frasi come “La mia terapeuta dice che il problema sei tu”, o “Secondo lo psicologo ho ragione io”, sono il segnale che la terapia è stata trasformata in tribunale. Il professionista diventa un giudice invisibile che, anche senza saperlo, finisce per essere tirato dentro un processo in cui il paziente è vittima, l’altro è carnefice, e il verdetto è già scritto: io ho ragione, l’altro ha torto. Ma la psicoterapia non dovrebbe servire a questo.

Carl Gustav Jung, in Tipi psicologici, parla dell’Ombra come di quella parte di noi che rifiutiamo, che proiettiamo sugli altri perché troppo dolorosa da accettare. Ecco allora che ciò che ci irrita nel partner, nel genitore, nell’amico, è spesso proprio ciò che non vogliamo vedere in noi stessi. Ma invece di accorgercene, ci presentiamo in terapia chiedendo che venga punito il nostro specchio.

Questo atteggiamento rivela una resistenza ancora più profonda di quella freudiana: è il bisogno di mantenere intatta la maschera. Chi si comporta così, spesso non vuole guarire, ma consolidare un’identità di vittima. Non vuole sciogliere i nodi, ma usarli per ottenere amore, pietà o rivalsa. È un modo raffinato per evitare la responsabilità personale, per non dire mai: “Forse ho sbagliato anch’io”, “Forse ho bisogno di cambiare”, “Forse quella relazione l’ho scelta io, e non solo subita”.

Delegare il giudizio al terapeuta serve a evitare la fatica più grande: quella di guardarci davvero. E infatti, molte delle persone che usano così la psicoterapia, smettono di andarci appena ricevono anche una piccola frustrazione, un invito scomodo, una domanda che apre invece di chiudere. E tornano al copione di sempre. Ma con una nuova frase da brandire: “Lo ha detto il mio psicologo”.

A questo meccanismo appartiene anche un grande classico: andare in terapia per “dimostrare ai miei genitori che avevano torto”. E certo, spesso hanno avuto torto davvero. Le responsabilità educative sono enormi, e le ferite inflitte nell’infanzia lasciano segni profondi. Ma la terapia non è un’aula di tribunale dove si ottiene una sentenza da sventolare davanti a mamma e papà. Andare da loro con in mano il verdetto dello psicologo – “Mi ha detto che siete stati genitori tossici!” – non solo non serve, ma peggiora le cose. Non guarisce nulla. Anzi, inasprisce i conflitti, blocca la crescita e rafforza la dipendenza emotiva proprio da chi si sta cercando di superare. Il perdono – che non è assoluzione, ma liberazione – passa da un lavoro interiore, non da un processo.

Riconoscere l’autosabotaggio

Riconoscere l’autosabotaggio è una delle sfide più sottili e importanti di ogni percorso di crescita personale. Non perché sia raro, ma perché è estremamente abile nel travestirsi da buon senso, da realismo, o persino da “autenticità”. Uno dei segnali più comuni è la mancata applicazione delle tecniche apprese in terapia: sappiamo cosa dovremmo fare, abbiamo gli strumenti, magari ci sono stati utili per un breve periodo… e poi smettiamo. Come se qualcosa in noi preferisse tornare al dolore conosciuto piuttosto che avventurarsi in un benessere sconosciuto.

Un altro segnale è la negazione dei propri progressi. Ci diciamo: “Non è cambiato niente”, “È solo un’illusione momentanea”, oppure: “Sì, sto meglio, ma non c’entra la terapia”. È il modo con cui una parte di noi cerca di mantenere lo status quo, di non ammettere che qualcosa stia davvero funzionando – perché se funziona, allora non potremo più aggrapparci alla vecchia identità.

Ancora più doloroso è quando rompiamo la relazione terapeutica proprio nel momento in cui comincia a funzionare davvero. La terapeuta inizia a capirci, ci sentiamo visti, toccati nei punti profondi… e scatta il panico. Allora cominciamo a notare ogni sbaglio, ogni sfumatura del tono di voce, ogni parola che ci sembra fuori posto, e usiamo queste cose per giustificare la fuga. È un meccanismo antichissimo, di protezione: se lascio prima io, non rischio di essere abbandonato. Se la distruggo io, la relazione non potrà ferirmi.

Hillman, nel suo La forza del carattere, suggerisce che questo tipo di sabotaggio è spesso una fuga dalla nostra vera natura. Il sintomo, la maschera, la nevrosi diventano abiti comodi, familiari. E abbandonarli significherebbe affrontare il rischio più grande: essere finalmente noi stessi.

Ci sono domande che possiamo farci, quando sentiamo che qualcosa si è inceppato:

  • “Cosa mi spaventa davvero, se questa terapia dovesse funzionare?”
  • “Cosa perderei, se guarissi?”
  • “Chi diventerei, se smettessi di avere questo problema?”

Sono domande difficili. Ma spesso aprono la porta al cambiamento vero. Perché ci costringono a vedere che, talvolta, non è il dolore che temiamo… ma la libertà.

Superare la resistenza: indicazioni pratiche

Quando riconosciamo in noi i segnali dell’auto-sabotaggio – la fuga, la negazione, la svalutazione dei progressi, la rabbia rivolta al terapeuta – abbiamo due strade: chiudere di nuovo la porta… o restare. Restare anche quando viene voglia di scappare. Restare anche quando non si capisce bene cosa sta succedendo. Restare anche solo per vedere dove porta questa nuova possibilità.

Ma restare non è una questione di forza di volontà. È una questione di pratiche quotidiane, piccole scelte, micro-movimenti che dicono al nostro sistema nervoso: “Va bene così. Puoi esplorare. Puoi sentire. Non sei in pericolo”.

Un buon modo per superare la resistenza è cominciare a normalizzare il cambiamento. Non come qualcosa di straordinario, miracoloso o epocale, ma come un processo che accade a piccoli passi. Non è raro che chi sta guarendo, inizia a sentirsi “strano”: meno bisognoso di controllo, senza più tanta voglia di litigare o di rispondere alle provocazioni. E questo nuovo modo di essere può mettere ansia. Come se stessimo tradendo una parte di noi, o abbandonando un’identità. Accettare che il cambiamento porta anche momenti di vuoto è fondamentale.

In psicoterapia si dice spesso che non esiste guarigione senza crisi. Una buona terapia è come una muta: la pelle vecchia si stacca, ma nel mentre siamo vulnerabili. Se proviamo a rimettercela su per paura, resteremo bloccati a metà. Se invece accettiamo il disagio temporaneo – la confusione, la paura, la sensazione di non sapere più chi siamo – allora ci sarà spazio per la nuova pelle.

Un altro passo importante è stare con le emozioni difficili senza reagire subito. Quando sentiamo rabbia verso il terapeuta, frustrazione, delusione, invece di dire “questa terapia non serve”, possiamo provare a stare lì. Respirare. Dirci: “Questa è una parte di me che si sta difendendo”. Poi, con il terapeuta, possiamo portare proprio quella emozione in seduta. Non come accusa, ma come materiale prezioso.

Infine – e forse soprattutto – serve imparare a trattarci con auto-compassione. Lo dice Kristin Neff nel suo bellissimo libro Self-Compassion: cambiare non è una gara. Non esiste una performance del guarire. E ogni passo, anche il più piccolo, va accolto come un dono. Se oggi non siamo riusciti a fare quello che ci eravamo proposti, non serve colpevolizzarci. Serve chiederci: “Da cosa mi sto proteggendo? Di cosa ho paura?”

La gentilezza verso noi stessi è una medicina potente. Ci insegna che possiamo fallire senza perdere valore. Che possiamo fermarci senza essere deboli. Che possiamo avere bisogno di tempo… e andare bene lo stesso.

Superare la resistenza, dunque, non significa eliminarla. Significa imparare a riconoscerla, dialogarci, farle spazio senza lasciarle il volante. E continuare a camminare – nonostante tutto – verso la parte più vera di noi.

E se invece il terapeuta “fa schifo” davvero?

Detto questo, però, un appunto: come si riconosce un vero incompetente? Perché quello che ho detto all’inizio rimane vero, ma rimane tutto vero. Io ho avuto molti analisti e psicoterapeuti in circa vent’anni, e non se n’è salvato uno. Anzi, con uno psicoanalista siamo addirittura finiti per vie legali: tra le altre cose, voleva convincermi che il dolore che sentivo in un punto preciso del mio corpo fosse tutto nella mia testa, mentre in realtà si trattava di una grave vasculopatia. Ah, e poi cercava di spillarmi un sacco di soldi per sedute in cui, invece di parlare di me, parlavamo di lui (cose da matti, lo so: questa storia finirà, prima o poi, in un altro libro di più ampio respiro, sul sistema sanitario pubblico e privato in generale, e su una lunga avventura durata tre anni, vissuta ai tempi del Covid, che ha contribuito molto a farmi “accettare il cambiamento” di cui stiamo parlando qui).

Dicevo, però: come facciamo a capire se un terapeuta è competente o meno? Se è affidabile o meno? Abbiamo degli strumenti per accorgerci se ci troviamo nel caso – magari raro e sfortunato, eh – in cui stiamo davvero “buttando i soldi”?

Proviamo a rispondere. Ma prendete tutto con le pinze, perché questi sono i miei metodi. E forse valgono solo per me. Tuttavia, sento di dover condividere anche questa faccia della medaglia.

Ecco, allora parliamone: come si riconosce un terapeuta inadeguato? Uno che, invece di accompagnarti nel cambiamento, te lo impedisce? Uno che, al posto di aiutarti a scoprire chi sei, ti imprigiona in un ruolo, o peggio ancora, ti usa per i propri bisogni?

Intanto, partiamo da una cosa fondamentale: non basta un titolo per fare uno psicoterapeuta. Come ricorda Irvin Yalom (psichiatra, psicoterapeuta e autore tra i più rispettati del secolo scorso), “la terapia è un incontro umano, prima ancora che una tecnica”. Se esci da ogni seduta sentendoti svalutato, confuso, ignorato o in colpa senza capire perché, forse qualcosa non va. La terapia può essere dura, sì, ma non deve essere ambigua, manipolatoria o autoreferenziale.

Uno dei segnali più chiari? Il terapeuta parla troppo di sé. Non parlo delle condivisioni terapeutiche, mirate, consapevoli, rare e al servizio del tuo processo. Parlo di quei professionisti che riempiono lo spazio parlando dei propri problemi, dei propri successi, del proprio cane, del proprio matrimonio. Se succede con frequenza, se la stanza diventa il palcoscenico del terapeuta, fermati. Questo non è un percorso su di te. È una deviazione.

Altro campanello d’allarme: ti senti giudicato o “raddrizzato” continuamente. Ti viene detto cosa è giusto o sbagliato, cosa devi pensare, come ti devi comportare, senza ascolto reale del tuo vissuto. Questo non è contenimento. È moralismo terapeutico. Ricorda: la buona terapia aiuta a espandere la coscienza, non a chiudersi in nuove gabbie.

E ancora: se il terapeuta ti isola, ti scoraggia dal confrontarti con altri, ti fa sentire che “solo lui” può capirti… scappa. È un meccanismo classico di potere. Alice Miller, ne Il dramma del bambino dotato, ha denunciato proprio questo: terapeuti narcisisti che, invece di guarire, replicano il trauma.

Infine, fidati del tuo corpo. Se per settimane ti senti peggio, più spento, più disorientato, e non riesci a parlarne col tuo terapeuta, non darlo per scontato. Non è detto che sia colpa tua. Potrebbe essere proprio lui il sintomo. E cambiare terapeuta, in quel caso, è già una forma di guarigione.

Ma aggiungiamo un’altra cosa importante. In terapia non si può analizzare qualcun altro – un padre, un amante, un’amica – partendo solo dal racconto che ne fa il paziente. Certo, tutto passa dal racconto, è inevitabile: ma un terapeuta serio sa che quel racconto non è mai la verità oggettiva. È un frammento. È lo sguardo ferito di chi parla. Non può dire con certezza: “Tuo marito è narcisista, lascialo.” O almeno, non può farlo con leggerezza.

Una terapia così, basata su diagnosi a distanza, senza contraddittorio, rischia di diventare più dannosa che curativa. Non è etica, non è clinicamente fondata, e – soprattutto – non trasforma nulla. Rende il paziente più dipendente, più incastrato nel suo ruolo di “buono contro il cattivo”. Citando ancora Irvin D. Yalom, il terapeuta non può essere il giudice della vita altrui; può solo aiutare il paziente a diventare più consapevole delle proprie scelte, delle proprie responsabilità, del proprio modo di partecipare al dramma che racconta.

È qui che entra in gioco la responsabilità del paziente. Dire la verità, in seduta, è un atto sacro. Perché se menti a te stesso, se ometti parti scomode, se alteri i fatti per sentirti meglio o per ottenere alleanze, non stai facendo psicoterapia. Stai solo mettendo in scena l’ennesima versione del tuo personaggio – ma stavolta davanti a uno spettatore pagato per ascoltarti. La terapia funziona solo se nella stanza arriva tutto: il vero, il brutto, il goffo, il dubbioso, il violento, il deluso. Altrimenti stai solo pagando per essere più bravo a mentire.

Ma c’è un altro aspetto spesso trascurato: dire la verità anche sul terapeuta. Se qualcosa non ti torna – se hai la sensazione che abbia detto una bugia, che si sia contraddetto, che abbia cambiato idea senza spiegartelo – dillo. Chiedi chiarimenti. Guardalo in faccia e chiedi: “Mi è sembrato che la scorsa volta dicesse una cosa diversa”. È un gesto che richiede coraggio, ma è terapeutico di per sé. E ti restituisce un’informazione preziosa: come reagisce il tuo terapeuta alla tua verità?

Se si irrigidisce, se si offende, se ti svaluta o ti punisce in modo sottile – forse stai parlando con il suo ego, non con la sua parte terapeutica. Se invece accoglie la tua osservazione, la esplora con te, e vi lavora insieme, stai lavorando con un professionista vero.

Ti racconto un’esperienza personale. Una psicoterapeuta, con il mio consenso, tentò un’esercitazione ipnotica. Finito l’esperimento, mi chiese che effetto mi avesse fatto. Risposi: “Non lo so, forse non ha funzionato”. Lei insistette: “Cerca di essere più sincero possibile, sentiamo cosa dice la parte di te che si è opposta”. Io, che gli esercizi li faccio sul serio, provai ad ascoltarmi e dissi quello che mi era arrivato in quel momento: “C’è una parte di me che pensa che, fatta così, questa cosa dell’ipnosi sia tutta una cazzata”. E spiegai anche il perché: la messa in scena, il tono di voce impostato, il lettino. Non dissi nulla con rabbia o sarcasmo. Solo sincerità, come mi era stato chiesto.

La sua reazione? Si fece scura in volto, cambiò tono, divenne ostile. Alla fine della seduta, le dissi: “Ci vediamo giovedì?”. Lei rispose: “Ti chiamo per confermare. Voglio prima sentire una collega psichiatra per vedere se conferma la diagnosi di disturbo da stress post-traumatico che ti hanno fatto a Milano”. E scomparve. Nessuna chiamata, nessun appuntamento. Due settimane dopo le scrissi: “Dottoressa, novità per me?”. La sua risposta: “Le farò sapere al più presto”. Mai più sentita.

Vi chiedo: che voto dareste a questa terapeuta?

Un buon terapeuta, ovviamente, può anche accorgersi delle incongruenze nel paziente. Può percepire la fuga, lo spostamento, la proiezione. Ma non è un veggente, né un investigatore privato. Non è suo compito “scoprire la verità”. Il suo compito è restare nella relazione, tenerla viva, anche quando il dolore si traveste da racconto, anche quando la verità fa paura.

Come direbbe Carl Gustav Jung, la verità terapeutica non sta mai da una parte sola. “L’incontro di due personalità – scrive – è come il contatto di due sostanze chimiche: se c’è una reazione, entrambe si trasformano.” Ma perché questa reazione avvenga, dev’esserci materia viva da entrambe le parti. E la verità, in questo, è l’ingrediente più esplosivo che abbiamo.

La regola d’oro

Alla fine, tutto si riduce a questo: dire sempre la verità. Cercarla con tenacia, anche quando brucia. Anche quando rovina un’immagine che avevamo costruito con cura. Anche quando ci mostra in una luce meno eroica di quella che raccontiamo agli altri – o a noi stessi.

Dire la verità significa anche ammettere quando ci accorgiamo di aver mentito, soprattutto a noi stessi. Non c’è nulla di male in questo. Non è una sconfitta. Anzi, è il primo atto autentico della nostra libertà interiore. Quando ci scopriamo “finti” – in un gesto, in una relazione, in un modo di essere – non è il momento della vergogna, ma della gioia. È lì che comincia la guarigione vera. È lì che finalmente si accende la luce.

Come diceva Eraclito, “Nulla è permanente, tranne il cambiamento”. E ogni verità che si manifesta, ogni bugia che si sgretola, è una soglia di trasformazione. Non ci rende perfetti, ma ci rende reali. E, in quel momento, anche bellissimi.

Perché non c’è niente di più luminoso di un essere umano che decide di diventare vero. Non migliore, non perfetto, non vincente. Ma vero. Ed è lì, in quella nudità lucida, che accade il miracolo: la psiche si raddrizza, l’anima respira, e il corpo – spesso – comincia a guarire.

Ecco il cuore di tutto il lavoro interiore: guardare in faccia l’Ombra, non per combatterla, ma per riconoscerla come parte di noi. Non c’è altra via per arrivare alla luce. E chi ci riesce, anche solo per un istante, ha già fatto qualcosa di rivoluzionario. Ha cominciato a vivere davvero.

Non si diventa illuminati immaginando figure di luce, ma rendendo cosciente l’oscurità”.

— C. G. Jung

Qualche consiglio di lettura

  1. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, per il concetto di resistenza.
  2. Stephen Mitchell, Relational Concepts in Psychoanalysis, sulle dinamiche interpersonali e sull’uso delle interpretazioni terapeutiche come arma.
  3. Irvin D. Yalom – Il dono della terapia
    Una raccolta di 85 consigli per terapeuti (e pazienti) basata sull’esperienza di una vita. Molto utile per riconoscere i limiti, le trappole e le risorse del setting terapeutico.
  4. Thomas H. Ogden – Sogni, stati mentali e la relazione terapeutica
    Un testo raffinato ma accessibile che esplora il processo psicoterapeutico come incontro reale tra due menti. Aiuta a capire cosa succede davvero in una stanza di terapia.
  5. Marie-Louise von Franz – Psicoterapia
    Dall’allieva più importante di Jung, una raccolta di riflessioni sulle difficoltà pratiche, simboliche e umane del processo terapeutico, compresa la “resistenza”.
  6. James Hillman – La forza del carattere
    Da tenere sul comodino: qui Hillman spiega come la psiche cerchi coerenza, anche nel sintomo, e come spesso sabotare il cambiamento sia una forma inconscia di fedeltà a sé stessi.
  7. Steven Pressfield – The War of Art (La guerra dell’arte)
    Un approccio molto pratico (e anche spirituale) all’auto-sabotaggio creativo. Non è clinico, ma parla alla stessa parte interiore che dice: “non sono pronto, non oggi”.
  8. Carl Gustav Jung – Tipi psicologici
    Il nostro riferimento all’Ombra viene da qui. È un testo denso, ma fondamentale per capire come proiettiamo sugli altri ciò che rifiutiamo in noi stessi.
  9. Nathaniel Branden – I sei pilastri dell’autostima
    Una guida concreta per vivere una vita fondata sulla responsabilità e sull’integrità. Branden insiste molto sul dire la verità a sé stessi, e sul potere che questo ha nel processo terapeutico.
  10. Alice Miller – Il dramma del bambino dotato
    Un classico. Esplora il modo in cui i bambini adattano il proprio sé per compiacere i genitori, e come questo si traduce in adulti che faticano a essere veri, anche in terapia.
  11. Kristin Neff – Self-Compassion
    Un libro indispensabile per imparare la compassione verso di sé. Spiega perché “volersi bene” è un prerequisito per qualunque cambiamento autentico.
  12. Rollo May – L’arte del counseling
    Poco noto in Italia, ma fondamentale. Rollo May – esistenzialista come Yalom – offre uno sguardo umano, coraggioso e non dogmatico sul lavoro di aiuto e sulla responsabilità reciproca nella relazione terapeutica.