Stamattina ho provato a raccogliere un po’ di riflessioni sparse sul concetto di amore nella Bibbia. Ho ordinato un po’ i pensieri, se vi va, sono pronto per una prima restituzione. Parziale, provvisoria, ma se ci riesco il più possibile onesta.
Una nota, prima di iniziare: l’amore di cui parla la Bibbia non è amore romantico. Non è quello delle canzoni, dei film, delle farfalle nello stomaco. Non è neanche quello delle relazioni di coppia idealizzate, in cui ci si “completa”, ci si “salva”, ci si promette la totalità. L’amore biblico non ti “salva” riempiendoti, anzi, in un certo senso ti svuota.
Non ti prende per sé, ti lascia andare.
Non ti mette al centro, ma ti decentra.
È qualcosa di più radicale, più nudo, più difficile.
Di questo “amore” qui, la Bibbia ha molto da dire. Ma di questo amore qui si parla in quasi tutte le religioni, dottrine salvifiche e molta filosofia. Per ora, tuttavia, partiamo da dove possiamo.
In greco, il Nuovo Testamento usa la parola “agápē” per definirlo. Una parola che esisteva anche nel greco classico, ma con significati deboli o generici, tipo “gradimento” o “affetto”. È nel linguaggio biblico però che essa viene riempita di un senso nuovo e potente: l’amore gratuito, non possessivo, che non pretende nulla, ma dona tutto. Un amore che non nasce dal bisogno, ma dalla pienezza.
Agape è un amore non contrattuale, non condizionato. È gratuito, disinteressato, e soprattutto: liberante. È l’amore che dice “non sei mio”, ma anche “ti vedo”, “ti riconosco”, “ti voglio bene anche quando non mi vuoi bene”.

In latino la Chiesa lo ha tradotto con “caritas”. Ma attenzione: caritas non è beneficenza. Non è fare l’elemosina. È l’amore come atto di intelligenza spirituale. L’amore che vede l’altro per ciò che è, non per ciò che gli serve o per ciò che rappresenta.
Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, dice questa cosa, rivoluzionaria per i suoi tempi:
“L’amore è paziente, è benigno; l’amore non invidia, non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non si irrita, non tiene conto del male ricevuto…”.
Qui Paolo non ci sta parlando di un’emozione. Ci sta parlando di un orientamento dell’essere. Un modo di stare al mondo. E in fondo, più che descrivere l’amore, ci sta dicendo cosa l’amore non è.
“Non cerca il proprio interesse“. Già solo questo, se lo prendessimo sul serio, farebbe saltare l’80% delle nostre relazioni.
L’amore che la Bibbia propone è quello che non pretende, non forza, non plasma l’altro a propria immagine. Non ti misura sul bisogno che ho di te. Ti vede. E basta.
Lo ritroviamo anche nel Vangelo di Giovanni, dove Gesù dice:
“Non vi chiamo più servi, ma amici.”
Cioè: non vi comando, vi accompagno. Non vi possiedo, vi rendo pari. È uno scarto radicale: non più un amore gerarchico, ma orizzontale, reciproco, libero.
E ancora, nella Lettera ai Romani:
“Gareggiate nello stimarvi a vicenda.”
Gareggiate, cioè fate a gara non per vincere, ma per riconoscere il valore dell’altro. Un amore che esalta l’altro in pubblico, e semmai lo corregge in privato. Che non si offende se viene ignorato, che non muore nel silenzio, che non si spegne quando l’altro cambia.

Per “semplice” associazione di idee, mi viene da pensare adesso a Platone, quando parlava di eros come desiderio di bellezza. Ma Platone stesso, nel Simposio, distingue l’eros volgare dall’eros celeste. Il primo cerca il possesso. Il secondo vuole vedere l’anima dell’altro salire. E quando l’amore diventa davvero profondo, dice Platone, si dimentica dell’altro per amare il Bene. È qui che eros comincia a diventare agape.
E forse l’amore di Dio, nella Bibbia, è proprio questo: un amore che vuole che tu cresca, non che tu rimanga a me vicino. Un amore che accetta i tuoi “no”, i tuoi silenzi, i tuoi tagli, senza perdere il rispetto. Un amore che non ha bisogno di essere ricambiato per essere vero.
E se vogliamo prendere sul serio tutto questo, forse oggi dovremmo riformulare anche la nostra idea di “amare – volere il bene di – qualcuno”. Perché forse non lo ami se lo controlli. Non gli vuoi bene se lo colpevolizzi. Non vuoi davvero il SUO bene se ti aspetti che sia come dici tu. Lo ami quando gli lasci spazio. Quando non lo umili. Quando non lo usi come specchio per sentirti giusto.
Magari è da qui che possiamo cominciare a distinguere tra bisogno e amore. Tra dipendenza e agape. Tra desiderio e caritas.
E magari è da qui che potremo tornare ad amare. Sul serio.