Spostare le montagne – Il peso (e la grazia) dell’impossibile

Tra le frasi più famose del Vangelo c’è questa:

«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questa montagna: “Spostati da qui a là”, ed essa si sposterebbe. E nulla vi sarebbe impossibile»
(Mt 17,20).

Viene citata spesso come espressione massima del potere della fede, ma raramente viene compresa nel suo spessore completo. Perché è una frase che può tanto sollevare quanto schiacciare: promessa e accusa si confondono, e la montagna, invece di spostarsi, sembra spesso ingigantirsi. Ma cosa intende davvero Gesù quando dice queste parole? E cosa possiamo farcene noi, oggi, quando ci ritroviamo davanti a ostacoli che ci sembrano eterni, definitivi, immobili?

Il contesto in cui questa frase viene pronunciata è importante. I discepoli non sono riusciti a guarire un ragazzo “indemoniato” (secondo la diagnosi del tempo; probabilmente si trattava di epilessia), e quando Gesù interviene e lo guarisce, loro gli chiedono: «Perché noi non ci siamo riusciti?». La risposta di Gesù sembra dura: «Per la vostra poca fede». Ma subito dopo aggiunge quella frase che sposta il piano: se anche aveste una fede piccola quanto un seme di senape, che è uno dei più piccoli semi conosciuti nel mondo agricolo del tempo, potreste fare l’impossibile. In altre parole: non è questione di quantità. Non ti serve una fede enorme, granitica, eroica. Ti serve una fede autentica. Viva. Germinabile.

Il seme di senape, infatti, non è solo piccolo. È un seme che cresce in fretta, che genera una pianta invasiva, resistente, che si estende anche dove non dovrebbe. Gesù usa volutamente quell’immagine, perché non parla della fede come qualcosa da misurare, ma da piantare. È un gesto, non una statura. È un inizio, non un possesso. Quel che conta non è la dimensione della tua certezza, ma la vitalità del tuo affidamento.

La parola “fede”, nel Nuovo Testamento, è pistis, e nel greco del I secolo non significa “credere a qualcosa di invisibile”, come spesso pensiamo noi oggi. Indica piuttosto fiducia, affidamento, lealtà relazionale. Non ha a che fare con le idee, ma con i legami. Non si crede per spiegare il mondo, si crede per restare in relazione con esso. Si crede per potersi consegnare. Gesù non sta quindi invitando a pensare positivamente, a “credere in sé stessi”, o ad aspettarsi il miracolo come premio per una devozione impeccabile. Sta mostrando una legge nascosta ma semplice: se dentro di te c’è anche solo una fessura viva di fiducia, quella piccola apertura può mettere in moto un movimento imprevedibile. Non è garantito che la montagna si sposti oggi, ma è certo che non si muoverà mai se tutto dentro di te resta chiuso.

L’immagine della montagna non è casuale. Per la cultura ebraica era simbolo di ciò che è saldo, definitivo, inamovibile. Nel libro di Isaia, solo Dio può abbassare i monti e raddrizzare i sentieri. L’idea che un essere umano, con un semplice atto di fiducia, possa spostare una montagna è assurda, provocatoria, persino blasfema. Ma proprio lì sta il punto. Gesù mette in crisi la gerarchia del potere religioso: non è Dio che premia i fedeli buoni con qualche prodigio, ma è la fede stessa — come dinamica interiore viva — che apre spazio all’azione del divino. La montagna è tutto ciò che sembra bloccato per sempre. E se hai vissuto abbastanza, sai che non servono i terremoti per sentirti sotto una frana: bastano certe abitudini, certi pensieri, certi dolori che si ripetono uguali da anni. La montagna può essere la depressione, un trauma, la solitudine, un senso di fallimento che hai normalizzato, una relazione che non riesci a lasciare o a guarire. Qualunque cosa ti sia convinto che non cambierà mai. È lì che entra la frase di Gesù, come una lama sottile.

La teologia cristiana, nei secoli, ha cercato di interpretare questa frase senza cedere né alla magia né al moralismo. Nella Summa Theologiae (II-II, q.6, a.1), Tommaso d’Aquino distingue tra fede assenso (credere alle verità rivelate) e fede fiducia (fiducia che Dio può operare anche l’impossibile), indicando che questa seconda è quella che qui viene messa in gioco. Non è l’adesione dogmatica che muove le montagne, ma il “gettarsi” in Dio, come un bambino che si lascia prendere in braccio.

Oggi la psicologia conferma, in altra lingua, qualcosa di simile. Tutti i percorsi di guarigione — terapeutici, relazionali, spirituali — iniziano non con una risoluzione razionale, ma con un’apertura. Una disponibilità minima. Un “forse”. Daniel Siegel, psichiatra e autore di riferimento nella neurobiologia interpersonale, ha scritto più volte che ciò che modifica il nostro cervello e il nostro modo di stare al mondo non sono le spiegazioni, ma le esperienze emotivamente significative, quelle che riattivano la connessione con sé e con l’altro. E queste esperienze spesso nascono da atti minimi di fiducia: accettare una mano, restare in silenzio, lasciarsi vedere. È lì che cominciano gli spostamenti veri.

Anche il pensiero filosofico non è rimasto indifferente a questa immagine. Paul Ricoeur, in Finitudine e colpa, descrive la fede non come rifugio dalla realtà, ma come “la capacità di accogliere una seconda possibilità”. In un tempo in cui tutto tende a irrigidirsi — le identità, le ideologie, i dolori — la fede diventa lo spazio della creazione: dove sembrava esserci solo ripetizione, può nascere qualcosa di nuovo. Ma ci vuole un atto di fiducia. Anche piccolo. Anche tremante.

La montagna, allora, non si muove come nei film, con un boato. Si muove in silenzio, mentre dentro di te ricominci a sperare. A provare. A chiedere. A dire di sì a qualcosa che avevi smesso di guardare. E nessuno può dire quanto tempo ci metterà. Nessuno può calcolarlo. Ma quel movimento, una volta iniziato, non si ferma più. Il Vangelo non promette un potere magico, ma una trasformazione reale: la fede non ti serve per ottenere miracoli, ma per diventare parte del miracolo che accade quando smetti di vivere come se tutto fosse già scritto.

In questo senso, la frase di Gesù non è né accusa né motivazione. È una porta. È una possibilità offerta a chiunque, anche a chi non crede, anche a chi ha smesso di credere. Se dentro di te c’è ancora un seme che non hai bruciato — una parte che non ha ceduto del tutto al cinismo, alla delusione, alla rassegnazione — allora sì, quella parte può muovere una montagna.

Non perché sei bravo, non perché sei puro, ma perché la vita è più viva di quanto pensavi.
E si muove. Quando tu ti muovi. Anche solo di un passo.