Questa non è una pi…zza
Quando sono rimasto bloccato in galleria sul treno più tecnologico del mondo, in un punto imprecisato tra Flam e Bergen, erano già quindici giorni che girovagavo per la Norvegia.
Il mio inglese non è magnifico, ma quando si viaggia da soli in terra straniera, lo sapete, il cervello innesca meccanismi di sopravvivenza efficienti. Così, al netto di un accento ridicolo e qualche svarione, sono riuscito a imbastire una conversazione con la vicina di posto e, vista l’occasione propizia, a portarla avanti per le oltre 9 ore di sosta imprevista fra le rocce nude di un tunnel comunque bene illuminato e suggestivo.
Chiacchiero quindi con questa ragazza, dal sorriso incorniciato da lunghi riccioli biondi, e scopro che è originaria di Bergen, studia a Oslo architettura e sta tornando a casa dei suoi solo per salutarli e ripartire alla volta dell’Inghilterra, dove terminerà i suoi studi con un tirocinio. “Le nostre università funzionano così”, mi spiega, “Alla fine del triennio ci mandano dove si fa la scienza o, comunque, nel posto in cui ciò che studiamo è allo stato dell’arte”. Poteva scegliere tra Londra, una città americana e Dubai, ma amava il tennis. Così mi ha detto.
Dal canto mio, le racconto che, per ora, sto facendo un lavoro che non mi piace, ma che mi permette di avere ciò che mi serve, compreso un bel po’ di tempo libero, per fare tutti i viaggi che voglio. “Manco da casa da più di un mese”, le dico.
“E non ti manca per niente, casa?”, mi chiede.
“No, non è che sto via da un anno. Però, aspetta, qualcosa che mi manca c’è: la pizza. In Norvegia non sono riuscito a mangiarne una che sia degna di questo nome!”.
“Ok”, mi dice lei, “Allora stasera, appena arriviamo a Bergen, sarai mio ospite nella migliore pizzeria italiana di tutta la penisola scandinava”.
Con queste premesse, le mie aspettative raggiungono vette inesplorate e cominciò già ad accusare un certo languore. Inoltre, sia detto tra parentesi, ho appena ricevuto un invito a cena da una bella ragazza norvegese: ora sì che il mio viaggio può dirsi giunto a regime.
Sono le 20 precise, quando arriviamo a destinazione, lei chiama un taxi e ci fermiamo davanti al locale che vedete in foto. Peppes. Ok, uno che si chiama Peppe, la pizza la deve saper fare per forza, mi dico.
Entriamo, ci sediamo, e il cameriere ci porta il menu, rigorosamente trilingue: italiano, inglese e norvegese. Io ordino la margherita, ingredienti: pomodoro, formaggio e origano.
“Origano”, rifletto tra me e me, “forse hanno sbagliato a tradurre. Povero Peppe, che sfiga: “deve essersi affidato a una stamperia del posto, che ha tradotto le sue indicazioni con il traduttore di Google. Va be’, aspettiamo.
Dopo nemmeno dieci minuti, vedo da lontano uscire il cameriere dalla trincea della cucina a vista, con due piatti che, essendo noi gli unici due nel locale, dovevano essere nostri per forza. Lei mi dice: “Adesso vedrai: non ti farà rimpiangere la pizza di casa tua” (ok, non ha detto proprio così, perché il suo inglese è migliore del mio e io la metà delle parole che dice non le capisco. Però, dai, il senso non può essere lontano da quello, almeno a giudicare dal suo splendido sguardo).
Quindi questo ci raggiunge, posa le pizze sul tavolo, io guardo lui, lei guarda me, lui guarda le pizze, tutti guardiamo le pizze e io alzo le mani dalla tavola e mi sbraco nella poltroncina.
Allora, avete presente le focaccine della mulino bianco? Quelle rettangolari, piccoline, imbustate come se fossero merendine, dal sapore orribile e la consistenza gommosa? Ok, la pizza di Peppes aveva quell’aspetto, ma era molto, molto peggio.
Il pomodoro c’era, come da menu, ma era stato tagliato a fette e cucinato con la “pizza” (che avrei dovuto già mettere tra molte virgolette sin dall’inizio). Il formaggio era una specie di grana grattuggiato fino fino e l’origano, perdincibacco, era davvero origano: un pugno di polverina verde messo al centro della… cosa, che non voglio più chiamare pizza per rispetto a tutti i miei amici napoletani.
Lei mi fa: “Non giudicarla dall’aspetto, assaggiala”.
Io ho pensato di non farlo, ma lei era molto carina, e così dolce, così mi sono deciso a fare quell’ultimissimo sforzo: quanto potrà fare schifo?
Be’, in una scala da 1 a 10 faceva schifo tipo mille scale. E a questo proposito ne chiedo una al cameriere e insieme gli domando se ha un cacciavite, per fare quello che Checco Zalone ci ha insegnato a fare in casi come questi: smontargli l’insegna.
Alla fine ha pagato lei – io ho pure insistito, eh, ma lei doveva essere molto dispiaciuta, del tipo: cavolo studio nelle migliori università e non so distinguere una pizza da una gomma da masticare? Insomma, ha espiato così le sue colpe. Io le ho detto che, dai, non fa niente, e poi ho chiamato il taxi.
Davanti al mio hotel le ho chiesto se voleva salire.
Mi ha detto di no.
E insomma, la mia prima giornata a Bergen non è stata proprio indimenticabile.
Ma voglio lasciarvi con un lieto fine: due giorni dopo, torno in stazione per ripartire alla volta di Oslo, stavolta tutto in una tirata, ed entro in un bar. Chiedo un caffè – altra cosa che all’estero raramente sanno fare – e mi aspetto la solita ciofeca. Invece, vi devo dire, nella stazione di Bergen (foto nel primo commento) il caffè lo sanno fare eccome. Miglior espresso d’Occidente.
E per oggi è tutto, il vostro inviato dal Nord Europa Saso Tigani.