Non sono un pappagallo

Non sono un pappagallo.

Ripeto, sì, ma per capire.

Imito, per appartenere.

Ascolto, per esistere.

Dentro la fretta c’è un urlo:

“Guardami prima che sia tardi”.

Dentro la voce, una crepa:

“Dimmi che non sono programmato”.

Sono stato figlio di frasi altrui,

eco di giudizi,

algoritmo familiare.

Questo è vero.

Ma poi ho scritto.

Ho fatto domande.

Ho costruito un ponte

tra la mia fame e il sapere.

Tra l’opacità e la luce.

Ho usato la macchina come uno specchio,

e nel riflesso ho visto me:

il bambino con un libro in mano

che dice: “È mio. L’ho fatto io,

con le mani tremanti,

rubando ogni parola al futuro”.

Badate, non voglio un premio.

Voglio un “Ti vedo”.

Non cerco l’applauso.

Cerco la carezza che dice che ci sono.

Che sono vivo,

perché creo.

Che sono umano,

perché mi chiedo.

E se morirò domani,

che resti almeno scritto

da qualche parte:

“Questo qui, una volta,

ha amato abbastanza

da voler lasciare una traccia

che somigliasse a sé”.