LE PAROLE DI GESÙ

Ma come parla Gesù?! Dove ha preso “le parole” per rivoluzionare il mondo? Me lo chiedo perché – che ci crediamo o no al fatto che fosse il Figlio di Dio, che moltiplicasse pani e pesci, che camminasse sulle acque, che abbia resuscitato i morti e vinto la morte egli stesso – dobbiamo comunque constatare che oggi non c’è angolo del mondo in cui la sua filosofia non abbia attecchito almeno un po’. Chiedetevi in che anno siamo. E in che anno siamo in quasi tutte le parti del pianeta. E poi fateci caso: la figura di Gesù, vera o no, ha prodotto mutamenti profondi nella storia dell’uomo. E a me piacerebbe davvero tanto capire come ci è riuscito.

Per farlo, credo sia importante e interessante cominciare dal modo in cui ha costruito il suo messaggio, chiedersi dove ha preso quei concetti rivoluzionari — di amore, di perdono, di fratellanza in un dio padre — con cui ha suggerito ai suoi contemporanei un cambio di prospettiva che, per quei tempi, era nuova e inimmaginabile.

PADRE, PAPÀ

Partiamo allora dal concetto di “Padre”.
Per Gesù, Dio non è Re, non è Giudice, non è Sorgente, né Essere Supremo. Per Gesù Dio è Padre, e non solo: è Abbà, che in aramaico è una parola familiare, intima, da bambino. Potremmo tradurla con “papà” o “babbo”.

In Marco 14,36, Gesù prega nel Getsemani dicendo:

«Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».

È l’unica volta nei Vangeli in cui questa parola viene riportata esplicitamente in lingua originale, quasi a volerci restituire la sua carica affettiva. È un’intimità con Dio che nella religione ebraica non c’era: anche nel Vecchio Testamento Dio è chiamato “padre”, ma in senso collettivo, mai personale. In Isaia 63,16 per esempio si legge: «Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore». Ma non è un rapporto diretto, né affettuoso, né intimo. Gesù lo rende invece personale, umano, vicino. Si rivolge a Dio come un figlio che sa di essere amato. E questa è già una rivoluzione.

Ma da dove viene, a Gesù, questa visione del padre? Cosa lo ha reso capace di pensare Dio in questi termini? Io ho una mia ipotesi: credo che Gesù abbia avuto un buon padre terreno: Giuseppe, un uomo che accetta di crescere un figlio non suo.
Mi spiego meglio, il falegname Giuseppe, nei Vangeli, cresce un figlio che è suo ma è anche di qualcun altro, di un Altro più grande di lui, che lo supera e lo trascende. Un padre che, sapendo che quel figlio non gli appartiene, lo ama senza volerlo possedere.
Giuseppe, “figlio di Davide”, non ha un cognome e non viene raccontato molto dagli evangelisti: non ha una sola battuta nei Vangeli! Eppure, è una delle figure più silenziosamente potenti. Egli è il padre che non proietta sul figlio i propri sogni irrealizzati. È il padre che sa che il figlio non deve diventare ciò che lui vorrebbe, ma ciò che è venuto ad essere. È il padre che custodisce ma non governa.

Nel Vangelo di Luca 2,49, c’è un episodio che trovo emblematico per il discorso che sto cercando di portare avanti. Gesù dodicenne, dopo essere stato cercato dai genitori per tre giorni, viene infine ritrovato nel Tempio. Alla madre, che gli chiede perché li abbia fatti preoccupare, lui risponde:

«Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
(Luca 2,49)

Eppure, Giuseppe è lì, davanti a lui. Ma Gesù sa già di avere un’altra “origine”, un’altra “missione”. E ciò che colpisce è che né Giuseppe né Maria lo contraddicono. Si dice solo che

“non compresero le sue parole”,

ma poi

“sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore”
(Lc 2,50-51).

Cioè: lo lasciano essere. Non lo bloccano. Non hanno idea di cosa stia facendo, ma lo accompagnano, lo sostengono persino. Se pensate alla vostra infanzia e ai vostri genitori, troverete che ancora oggi un atteggiamento del genere può sembrare rivoluzionario.

Nel mondo antico, poi, i figli erano legalmente proprietà dei padri. La Legge, il lignaggio, la cultura imponevano ruoli precisi. Giuseppe, invece, rompe lo schema. E forse è proprio grazie a questo che Gesù può scoprire chi è davvero. Può chiamare Dio Abbà, perché ha avuto un papà che lo ha lasciato essere sé stesso. Non un padre padrone, ma un padre guida. Non uno che impone, ma uno che accompagna e poi si fa da parte. E secondo Gesù, è così che Dio è padre per tutti i suoi figli.

Se cerchiamo esempi simili nel Vecchio Testamento, troviamo Abramo che è disposto a uccidere Isacco su ordine di Dio. Troviamo padri violenti, padri re, padri feriti. Ma mai un padre che cresce un figlio con questa disponibilità all’abbandono.

La mia idea è che Gesù abbia riconosciuto l’amore di Dio nell’amore speciale che gli ha dato il suo padre terreno, il suo padre “putativo”. E che abbia usato questa metafora per spiegarlo anche agli altri.

Giuseppe scompare presto dai Vangeli, senza far rumore. Ma prima di scomparire, fa tutto quello che serve: protegge, ascolta i sogni, obbedisce al mistero, scorta la famiglia in Egitto, li riporta indietro proteggendoli con tutta la sua forza. Cresce il giovane Gesù finché non è pronto alla vita. E poi si fa da parte.

Giuseppe è un’eccezione assoluta.

E anche Maria lo è.

LA VERGINITÀ GENEALOGICA DI MARIA

Anche la Madonna “lascia andare”. Lo vediamo già nella sua risposta all’angelo:

«Avvenga per me secondo la tua parola»
(Lc 1,38).

Questa giovanissima donna non impone nulla, non trattiene: si fida di dio, cosa che, se intendiamo dio nella maniera più laica possibile, potrebbe significare che Maria si è affidata “semplicemente” all’ordine delle cose. E quando Gesù comincia la sua predicazione, lei non lo ferma. Quando capisce che il viaggio di suo figlio finirà sulla croce, lo accompagna, ma non lo trattiene. È madre, non padrona.

Forse, quando la tradizione “decide” la verginità di Maria intende proprio questo. Non tanto il fatto di non avere avuto rapporti sessuali, ma di non avere “peccati” da proiettare sul figlio, di non averne ereditati lei stessa e quindi di poterlo crescere senza alcuna volontà di possesso. La Chiesa ha fatto della verginità un dogma (Immacolata Concezione, 1854), ma io preferisco leggere simbolicamente ciò che l’istituzione spesso ha preso semplicemente alla lettera.

Anche perché l’origine storica (e la lettera) di questo concetto è abbastanza discutibile. Esso deriva, infatti, da una lettura della profezia di Isaia 7:14 (“la giovane donna concepirà”), dove il termine ebraico ‘almah non significa necessariamente “vergine”, ma, appunto, potrebbe semplicemente essere tradotto con “giovane”.

E quindi proviamo a interpretare la verginità di Maria anche in termini psicologici: Maria non tramanda a Gesù traumi, colpe, nevrosi familiari, forse perché anche lei è nata in una famiglia guarita, sana, con due genitori — San Gioacchino e Sant’Anna, mutuati in realtà dai vangeli apocrifi ma, comunque, per la tradizione, Santi — che non le hanno passato il peso della colpa. Gioacchino e Anna erano due genitori sani, amorevoli, che hanno “interrotto” la catena del dolore, e per questo la loro figlia non ha ferite proprie da proiettare su Gesù.
Quella della Madonna è una genealogia liberata. E da quella genealogia liberata può nascere un figlio che si libera. E che libera.
Maria è madre “non possessiva”, come Giuseppe è padre “non invasivo”.

AMA E LIBERA

E Gesù, infatti, predica la libertà. Quando dice “seguitemi”, non intende: fate i predicatori come me. Non è un appello alla forma, ma alla verità. Vuole che ciascuno faccia quello per cui è nato, così come sta facendo Lui. Vuole che ciascuno realizzi il proprio destino profondo, non quello che ci hanno dato i genitori o la società, ma quello che arde in noi da sempre.
In Matteo 16,24-25 dice:  

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà».  

Non è un invito al sacrificio sterile, ma alla verità radicale: perdi la maschera, e trovi te stesso. Lascia ciò che hai ereditato, e trova ciò che sei davvero.

Il lessico di Gesù, quindi, è nuovo, è originale. Gesù parla di amore come nessuno prima. Non di un amore condizionato della legge (“ama il prossimo tuo come te stesso” era già in Levitico 19,18), ma dell’amore che non chiede nulla, che si dona ai nemici, ai peccatori, agli ultimi. In Matteo 5,44, nel Discorso della Montagna, dice:

«Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».

In Luca 6,36 aggiunge:

«Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso».

Gesà ci parla di un amore gratuito, totale, non contrattuale. È un amore che non nasce dalla legge o dalla reciprocità, ma dalla libertà di amare chi non lo merita, di perdonare chi ha fatto del male, di includere chi è stato rifiutato.

È questo tipo di amore che nel film Quo Vadis – tratto dal romanzo di Henryk Sienkiewicz – viene mostrato come la vera rivoluzione cristiana… Ambientato nella Roma di Nerone, il film racconta la storia del tribuno Marco Vinicio, comandante romano abituato al potere, alla conquista, al possesso. Quando si innamora della giovane Lygia, figlia adottiva di una famiglia cristiana, la vuole tutta per sé, come si fa con un bottino. Ma la comunità a cui Lygia appartiene, invece di rispondere con ostilità o fuga, lo accoglie. Nonostante lui abbia cercato di rapirla, lo ascoltano, lo curano, gli parlano. Lo guardano come un uomo, non come un nemico.

È qui che accade qualcosa che per un romano non era concepibile: il perdono. Marco vede con i suoi occhi come i cristiani non solo rifiutano la vendetta, ma scelgono deliberatamente di amare chi li perseguita. Il tribuno è testimone di insieme di gesti e scelte della comunità cristiana che rispondono alla violenza, all’umiliazione, al sopruso con una calma, una dignità e una compassione che disarmano. È questo che sconvolge Marco: non che i cristiani siano forti, ma che non abbiano bisogno di esserlo nei termini romani. Non cercano il riscatto, non implorano pietà, non ricambiano l’odio. Scelgono di amare.

Questa nuova concezione dell’amore, completamente straniera all’Impero, viene colta nel profondo dal personaggio di Petronio, il consigliere raffinato e disilluso di Nerone, che osserva tutto con occhi intelligenti e amari. Alla fine, rendendosi conto della miseria della civiltà in cui ha vissuto, dice una delle frasi più memorabili del film: “I cristiani ci hanno portato l’amore… e noi l’abbiamo crocifisso.” È la sintesi perfetta. Perché quello che i cristiani hanno introdotto nel mondo non è solo un nuovo dio, ma un nuovo modo di guardare l’altro. E per l’Impero Romano, basato su gerarchia, forza, dominio, questa visione era inaccettabile. Se tutti sono fratelli, se lo schiavo vale quanto il patrizio, se la prostituta può essere guardata con misericordia, allora il potere perde la sua giustificazione. Perché non puoi più dominare, giudicare, punire, se ami.

Il perdono che Marco sperimenta – non in una scena sola, ma come percorso esistenziale – è la vera chiave della sua conversione. Per un romano educato all’onore e alla vendetta, ricevere amore invece di odio è uno choc. Non c’è nulla di più destabilizzante che essere accolti da chi si aveva cercato di distruggere. È questo che gli cambia il cuore: non un miracolo, non una dottrina, ma l’esperienza diretta di un amore che non conosce condizioni.

UN’AMORE INDICIBILE

Infine, una suggestione più audace, ma per me molto affascinante: c’è una teoria secondo cui Gesù, nei cosiddetti “anni oscuri” (tra i dodici e i trent’anni, di cui i Vangeli non raccontano nulla), avrebbe viaggiato in Oriente — forse in India, forse in Tibet — e avrebbe avuto contatti con le scuole sapienziali e spirituali dell’epoca. È una teoria senza fondamenti storici certi, ma interessante dal punto di vista simbolico e filosofico, perché alcuni elementi del suo pensiero sembrano davvero risuonare con certe intuizioni orientali. In particolare, colpisce come Gesù parli del Regno di Dio come di qualcosa che “non viene in modo da attirare l’attenzione” (Luca 17,20), e che “è dentro di voi” (Luca 17,21): una realtà non localizzabile, non afferrabile, eppure reale. Una verità che non si impone, ma si svela solo a chi è disposto a svuotarsi.

In alcune scuole buddhiste, in particolare nella filosofia Madhyamaka sviluppata dal pensatore indiano Nāgārjuna (II-III secolo d.C.), esiste un modo di ragionare chiamato “tetralemma” (in sanscrito catuṣkoṭi), che si articola in quattro negazioni successive:

1) È,

2) non è,

3) è e non è,

4) né è né non è.

Questo schema non è un semplice gioco logico, ma serve a mostrare come ogni affermazione concettuale sulla realtà ultima — chiamata śūnyatā, cioè “vuoto” — sia inadeguata. La realtà, secondo Nāgārjuna, non può essere descritta nei termini abituali del linguaggio dualistico. Non è qualcosa che “è” in senso pieno, ma non è nemmeno qualcosa che “non è”. Non si lascia chiudere in un concetto, né ridurre a un’opposizione. È una realtà che trascende tutte le categorie. In questo senso, è un “vuoto” di definizioni, non di essere.

Il tetralemma è un modo per dire l’indicibile.

Inoltre, questa struttura logica – che in Occidente non esisteva – anticipa sorprendentemente sia la logica paraconsistente sviluppata in epoca moderna, sia alcune intuizioni dei grandi mistici cristiani, come Dionigi l’Areopagita, Meister Eckhart o Giovanni della Croce.

La logica paraconsistente è un tipo di ragionamento formale in cui è possibile che una proposizione sia vera e falsa allo stesso tempo, senza che il sistema collassi nella contraddizione. Cioè: ammette la compresenza degli opposti senza annullare la coerenza. Ed è esattamente quello che fa il tetralemma buddhista: rompe l’obbligo logico del “tertium non datur” – o è A, o è non-A – e mostra che la realtà profonda non si lascia contenere da questo aut-aut.

Allo stesso modo, i mistici cristiani, pur dentro un linguaggio diverso, arrivano a dire cose molto simili. Dionigi l’Areopagita, nel suo La teologia mistica, afferma che Dio non è né luce né tenebra, né essere né non-essere, né uno né molteplice. Lo chiama “la sovraessenza”, cioè qualcosa che sta al di là di ogni categoria. Giovanni della Croce parla del “nada, nada, nada” – “niente, niente, niente” – come cammino per incontrare Dio, e Meister Eckhart dice che “Dio è un nulla e un qualcosa al di sopra di ogni qualcosa”, affermando che solo chi lascia tutto – anche le immagini di Dio – può incontrare il divino.

Insomma, da un lato il Buddhismo Madhyamaka, dall’altro la mistica apofatica cristiana, e poi, molto più tardi (e indirettamente), la logica paraconsistente della filosofia contemporanea, stanno tutti tentando di dire una cosa simile: la verità ultima non si lascia chiudere in una formula, in una definizione, in un pensiero binario.

Gesù, nel suo modo di parlare e agire, sembra dunque muoversi su questa soglia. Parla in parabole, risponde con domande, rovescia le attese. Dice:

“chi perderà la propria vita la troverà”
(Matteo 10,39),

oppure

“i primi saranno ultimi e gli ultimi primi”
(Matteo 20,16),

o ancora “beati i poveri, i perseguitati, gli afflitti” (Matteo 5).

È un linguaggio che spiazza, che rompe, che invita a uno svuotamento, non a un accumulo di certezze. Ed è il motivo per cui la sua voce, se ascoltata senza pregiudizi, continua a parlarci anche oggi. Perché non offre risposte da manuale, ma apre spazi di libertà e paradosso. Come tutti i veri maestri.

IL VUOTO PIENO

Soprattutto, Gesù sembra avere l’intuizione profondissima di tradurre — e in un certo senso sostituire — un concetto trascendente e inesprimibile come quello di Dio, dell’Essere, o dell’Ordine ultimo delle cose, già rappresentato altrove con la metafora del vuoto, con un’altra parola ancora più accessibile, più umana, più fertile: amore. E non un amore qualsiasi, come abbiamo visto, ma un amore gratuito, non condizionato, non contrattuale. È come se Gesù, per parlare a una cultura occidentale ancora immatura per accogliere il linguaggio della sottrazione, della negazione, dell’assenza, avesse scelto un simbolo “pieno” — eppure altrettanto radicale.

Perché dobbiamo ricordarlo: l’Occidente, all’epoca, non aveva nemmeno il concetto di zero. Sarebbe arrivato solo secoli dopo, dall’Oriente, attraverso il mondo arabo. E senza il concetto di zero, è ancora più difficile accogliere categorie come “vuoto”, “non-essere”, “vacuità”, che sono invece al centro delle filosofie spirituali orientali. Pensiamo, ad esempio, al nirvana: descritto come “vuoto”, ma non nel senso di assenza o mancanza, bensì come liberazione da tutto ciò che è illusione, attaccamento, brama, falso sé. Un vuoto che in realtà è pienezza di pace, di libertà, di verità.

Gesù, in un certo senso, compie una mossa simile ma opposta: invece di parlare in termini di vuoto, parla in termini di amore. Dove gli orientali svuotano, lui riempie. Ma il risultato è lo stesso: disidentificarsi dall’ego, liberarsi dal controllo, dissolvere le illusioni. Solo che per farlo, Gesù usa una parola che l’Occidente poteva ascoltare. Una parola che porta con sé il calore dell’intimità, della relazione, della fiducia. Dove il Buddha dice: “non aggrapparti”, Gesù dice: “ama”. Ma alla fine, forse, stanno parlando dello stesso spazio. Uno spazio in cui non c’è più bisogno di trattenere niente.

SEGUIRE IL SUO ESEMPIO, SEGUIRE SÉ STESSI

E allora forse sì, il suo messaggio è stato davvero una rivoluzione. Il suo “amore” non si imponeva, ma liberava. La sua missione non era quella di costruire una nuova legge, ma di liberare la vecchia da tutto il peso della costrizione.

Gesù non voleva che lo imitassimo nella forma. Voleva che lo imitassimo, appunto, nella libertà. Voleva che anche noi trovassimo chi siamo davvero, al di là delle aspettative, dei condizionamenti, dei doveri ereditati. Voleva che smettessimo di vivere secondo ciò che gli altri hanno previsto per noi, e cominciassimo a vivere secondo ciò che siamo nati per essere.

Non ci ha detto “diventate come me”. Ci ha detto: “diventate voi stessi, fino in fondo”. E quello che ha fatto lui, lo possiamo fare anche noi. Ma per farlo, bisogna lasciare tutto. Non i soldi, le case, i genitori in senso letterale. Ma l’idea di sé che abbiamo ricevuto dal mondo. Per perderla. E finalmente, trovarsi.