I mille nomi di dio

Oggi mi sono imbattuto in questo versetto e ciò che sembra dire è forse al centro di tutta la mia riflessione laica sulla Bibbia. Se vi va, ora ve ne parlo.

“Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore, sarà salvato.”

Romani, 10:13

Una frase semplice, diretta, quasi da incorniciare. Ma se la ascolti davvero, senza dare per scontato nulla, ti accorgi che è una delle dichiarazioni più radicali e universali di tutto il testo biblico. Paolo scrive ai Romani, una comunità mista di ebrei e pagani, e lo fa in una lettera teologicamente densissima. Sta parlando della giustizia che viene non dalla legge ma dalla fede, e della salvezza che non è riservata a qualcuno, ma offerta a tutti. Per questo, questo versetto è sia una promessa, sia uno spartiacque.

Ecco come è costruito:

– “Chiunque” è una parola enorme. Abolisce ogni differenza. Non dice “chi è battezzato”, “chi è buono”, “chi è coerente”, ma solo: chiunque. È un invito estremo, senza condizioni d’ingresso. E quindi potenzialmente scandaloso.

– “Avrà invocato il nome del Signore” non è una formula magica. Non si tratta di ripetere delle parole, ma di un gesto profondo dell’anima. Invocare è riconoscere di aver bisogno. È aprirsi, cedere il controllo. È dire, col cuore: “Aiutami”. In ebraico, il “nome” non è solo una parola: è la presenza viva di qualcuno. Invocare il nome è entrare in relazione.

– “Sarà salvato” non parla solo dell’aldilà. Parla della salvezza come guarigione, liberazione, riconciliazione, pace interiore. Non è un premio, è una risposta. Non è qualcosa che “ci guadagni”, ma qualcosa che ti raggiunge quando smetti di fingere che ti basti tutto il resto.

Questo versetto riprende un passo del profeta Gioele (2:32), che già nell’Antico Testamento diceva: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.” Paolo lo cita per dire che quella promessa si è compiuta, e che ora vale per tutti i popoli, anche per chi non è ebreo. Eppure, la domanda che mi è sorta spontanea è la stessa che probabilmente si pongono in molti: perché la salvezza dovrebbe arrivare solo se si invoca Gesù come Signore e Salvatore? Non basta forse vivere bene, cercare il bene, amare sinceramente?

La dottrina cristiana tradizionale risponderebbe così: l’essere umano è segnato da una frattura, da una separazione da Dio (il peccato), e non può salvarsi da solo. Nessuna opera buona, nessuna legge, nessuna coerenza morale basta. Serve un Salvatore. E Gesù, in questa visione, non è solo un maestro di morale o un profeta, ma Dio fatto carne, colui che ha preso su di sé la distanza tra il cielo e la terra e l’ha riunita in sé. Per questo – sempre secondo la fede cristiana – solo attraverso di Lui può arrivare la salvezza. Ma attenzione: non nel senso che “Dio pretende una password” per farvi entrare in Paradiso, bensì che in Gesù, Dio si è fatto trovare. È lì che si è mostrato. E accogliere Lui è accogliere quella via di salvezza offerta gratuitamente.

Ma cosa succede con tutti gli altri? Chi non ha mai sentito parlare di Gesù? Chi lo ha conosciuto solo attraverso distorsioni o fanatismi? Chi cerca sinceramente il bene, ma in un’altra religione o in un altro linguaggio? Qui le posizioni si diversificano. Alcuni affermano che solo chi crede esplicitamente in Gesù sarà salvato. Altri – tra cui molti teologi moderni, e anche il Concilio Vaticano II – affermano che chi cerca la verità e il bene con cuore sincero, anche se non conosce Gesù, sta già in qualche modo invocando quel nome, anche senza saperlo. Perché Dio guarda il cuore, non il vocabolario.

E questa per me è una chiave importantissima. Perché sposta la questione da una teologia esclusiva a una mappa esistenziale. Se Gesù è anche simbolo – simbolo del Sé luminoso, della parte autentica e integra di me – allora “invocare il nome del Signore” diventa riconoscere che il piccolo “io” in cui mi riconosco non basta a sé stesso, e che ho bisogno di qualcosa di più grande. Qualcosa che mi tenga insieme quando tutto crolla. Qualcosa che non posso manipolare né dominare. E lì, in quel gesto, accade la salvezza. Non come magia, ma come apertura.

Mi sono accorto che il gesto di “invocare” è un gesto di umiltà. E che l’umiltà, nella sua radice (humus), è ciò che ci riporta a terra. Solo chi è disposto a cadere può essere rialzato. Solo chi non si difende più può essere abbracciato. La salvezza non accade nel dominio, ma nella resa. Non nel controllo, ma nella disponibilità. Non quando ci affermiamo, ma quando diciamo – sinceramente – “Non ce la faccio”. E non è un fallimento. È proprio lì che Qualcosa o Qualcuno può finalmente entrare.

Una volta ho letto: “Finché sei tu il signore della tua vita, Dio non può esserlo”. Mi è rimasta impressa. Perché dice che la salvezza non si dà finché non lasci il trono vuoto. Finché non rinunci all’illusione che basti la tua forza. Che puoi vivere nel mondo senza essere parte del mondo, che abiti nell’universo senza accorgerti che, anche tu, sei fatto di universo. Ecco, forse è questo che significa “invocare il nome del Signore”: cedere il posto. Chiedere. Smettere di recitare il ruolo di Dio nella propria vita. E in quel vuoto, qualcosa arriva. A volte una pace. A volte una chiarezza. A volte una carezza invisibile che ti cambia il respiro.

E se uno non crede in Gesù? O non riesce? O non sente nulla? Forse non è questione di nome, ma di gesto. A volte hai invocato “Gesù”, altre volte “Vita”, altre “Aiuto”, altre ancora hai invocato senza parole, con un brivido, con una lacrima, con uno sguardo nel vuoto. E hai imparato che non è importante il nome preciso, ma la verità del cuore che lo pronuncia. Dio – o chiamalo come vuoi – sa cosa intendi, anche se non trovi le parole.

E allora quel versetto, in questo modo, lo senti vero amche tu: “Chiunque avrà invocato il nome del Signore, sarà salvato”. Anche se quel nome lo avrà pronunciato male. Anche se non saprà di pronunciarlo. Anche se lo avrà chiamato con altri suoni, o sussurrato soltanto, o biascicato in sogno.

Anche se lo gridi nel dolore, o lo canti in una canzone, o lo respiri senza pensarci, anche se lo bestemmi (sì, anche in quel modo): il cuore lo riconosce, anche se la bocca no.

E a pensarci bene, forse è proprio questo che ci salva: non capire tutto, non avere una dottrina perfetta, non sapere a memoria i versetti, ma lasciare che qualcosa in noi invochi. Anche solo un sussurro. Anche solo un silenzio pieno di bisogno.

E forse, quando quel bisogno è sincero, qualcosa o Qualcuno risponde.

Tirando le fila, quindi, il messaggio è:

“Solo quando lasci cadere il tuo ego e invochi qualcosa di più grande di te – che nel linguaggio cristiano è Gesù – allora si apre lo spazio per la salvezza.”

E se non credi in Gesù domandati prima cosa intendi per “credere”. Se per te Gesù è solo una figura storica o un profeta, potresti comunque cogliere questo messaggio:

“Invocare la luce, la verità, l’amore, il senso… è già un gesto salvifico”.

Ché forse Dio ha mille nomi, e “Gesù” è solo quello scelto dal cristianesimo per rappresentare il Suo volto umano, la dimensione “personale” di ogni incontro spirituale