Gli ultimi saranno i primi

Uno dei problemi più grossi che abbiamo, secondo me, con i testi cosiddetti “sacri”, è che sono passati così tanti anni da quando li hanno scritti che molte parole che contengono oggi non esistono più oppure, se esistono, significano tutt’altro.
Per questo si dice che la Bibbia senza Tradizione è lettera morta: perché se pure la Tradizione, per sua natura, guarda al passato, lo fa con un piede ben piantato nel presente, per aiutare il lettore a capire cosa si stesse davvero dicendo in quel contesto, con quel linguaggio, con quella mentalità.
Prendete una parola di “oggi”, come “cloud”: due secoli fa indicava semplicemente una nuvola, oggi è anche (e soprattutto, visto dove stiamo andando) uno spazio remoto dove salviamo dati. Ecco.
Ora prendete parole come “amore”, “dio”, “salvezza”, “giustizia”, “peccato”, “spirito”, “umiltà”… sono parole che in questo momento storico suonano in un modo, ma nel tempo, nella Bibbia, nel mondo ebraico, greco, romano e cristiano delle origini, suonavano in modo molto diverso. Ieri, per esempio, abbiamo ragionato sulla parola “amore” usata nella Bibbia – e abbiamo capito che non è quello che intendiamo oggi quando parliamo di “romanticismo”, “coppia”, “affinità”, “emozione”, “appartenenza”. L’agápē del Vangelo non è né desiderio, né bisogno, né simbiosi. È qualcosa di più spoglio, più libero, più alto.

Bene, dunque, visto che stamattina mi è capitato davanti questo versetto, vorrei fare un check alla parola “umiltà”, parlando di… “umiliazione”.

Il versetto è Giacomo 4:10:

“Umiliatevi davanti al Signore, ed Egli vi innalzerà”.

Appena lo leggi, non ti si drizzano i peli? “Umiliarmi”? E perché dovrei? Non ho già abbastanza vergogna e senso d’inferiorità per conto mio? E poi: chi sei tu per chiedermi di umiliarmi? Non è tossica, questa roba? Non è manipolatoria?

La risposta breve è: dipende, appunto, da cosa intendiamo per “umiliarsi”.

La parola che Giacomo usa in greco è “tapeinōthēte”, che dovrebbe significare, più letteralmente, qualcosa come “rendetevi piccoli”, “abbassatevi”, ma nel senso di “non gonfiatevi”.
È l’opposto della superbia, non della dignità.
Non si tratta di farti schifo o di calpestarti. Non è l’umiliazione che subisci da un narcisista o da un padre violento. È un gesto libero, consapevole, interiore. È dire: ok, non sono al centro del mondo. Non ho capito tutto. Non domino la realtà. Non ho bisogno di difendere l’immagine che proietto di me stesso a ogni costo.
È un gesto spirituale, non sociale. Ti umili davanti al Signore, cioè davanti alla verità, al mistero, all’ordine più grande delle cose. Non davanti a un’altra persona che ti vuole sottomettere.

Perché farlo? Perché finché resti gonfio di te stesso, nessuna trasformazione vera è possibile. Finché occupi tutto lo spazio con il tuo ego pompato, con la tua maschera, con la tua narrazione, la vita non entra. Dio non entra. Il cambiamento non entra.
È come voler versare vino nuovo in un otre già pieno d’acqua.
Umiliarsi significa fare spazio. Sgonfiarsi. Lasciare che crolli il personaggio. Che venga giù la corazza. Che si spezzi quella voce dentro che continua a ripeterti che devi essere sempre all’altezza, sempre inattaccabile, sempre nel pieno controllo delle tue capacità.
Non sei così, non sei il migliore, non sei perfetto, e mi permetto di dirtelo perché so che, sotto sotto, lo sai già, lo capisci ogni volta che ti accorgi che, intorno a te, sotto sotto, nessuno lo è davvero
Scendi dal cavallo, direbbe un amico mio, e fatti una bella passeggiata a piedi!

Umiliarsi quindi non è “annullarsi”, non è “annichilirsi”: è lasciar cadere la maschera, per vedere se sotto c’è ancora un volto. E se c’è – perché c’è – allora forse puoi cominciare a vivere per davvero.

La seconda parte del versetto dice:

“ed Egli vi innalzerà”.

E anche qui, va capito bene. Non si tratta, infatti, di “ti darà successo”, “ti metterà sul piedistallo”, “ti premierà”. Il verbo usato in greco è “hypsōsei” – che ha a che fare con l’innalzare nel senso spirituale, con il far salire, con il sollevare lo sguardo e la coscienza. Dio ti innalza nel senso che ti rimette in piedi. Ti solleva dalla tua maschera, dalla tua performance, dalla tua piccolezza, ma lo fa solo se tu sei disposto ad ammettere che da solo non ce la fai. Non come confessione teatrale, ma come verità nuda, come semplice presa di coscienza.
Solo chi si lascia disarmare può essere trasformato. Solo chi smette di fingere può essere toccato. Solo chi ammette di non sapere, può imparare. E, paradossalmente, solo chi si accorge di non conoscere, inizia a conoscere veramente.

Forse è anche per questo che nella Bibbia chi “si esalta” viene abbassato, e chi “si abbassa” viene innalzato. Perché quando ti esalti, stai recitando. Stai cercando di diventare qualcuno che non sei. Quando ti abbassi, invece, stai tornando vero. E solo ciò che è vero può essere elevato.

E allora forse, “umiliarsi davanti al Signore” è proprio questo: accettare che non hai bisogno di fingere. Che puoi lasciare andare il controllo. Che puoi perdere la faccia, se è per ritrovare il tuo volto. Che puoi crollare, se c’è qualcuno (o qualcosa) che ti solleva, ma solo dopo che hai deciso che non vuoi più “salire” da solo.

Umiliarsi non è fare un passo indietro.
È fare un passo dentro.
E aspettare, con tremore, che Qualcosa – o Qualcuno, con le maiuscole – venga ad alzarti.
Ma questa volta, davvero.

Ps.: Parlando della Bibbia, devo usare per forza la parola “dio”, che per il discorso di cui sopra purtroppo è ormai, come si dice, “logora”. Una parola che nel tempo ha assunto così tante accezioni e così tanti connotati che, adesso, ognuno ne ha una propria versione. C’è il Dio con la barba, il dio incarnato, il dio che è solo uno dei tanti dei, il dio denaro, il dio cattivello e quello buono, il dio onnipotente e misericordioso e il dio silenzioso e apparentemente immobile dentro ognuno di noi.
Ma di che dio parlava la bibbia? Molti di voi potrebbero rispondere, d’istinto: “del dio con la barba”. E se entrate nel duomo del mio paese, e alzate lo sguardo al soffitto, c’è persino un bellissimo mosaico che sembra darvi ragione: siete cattolici, quindi vi tocca il dio padre onnipotente. Ma, ancora una volta, cosa significa che dio è “padre”?
Cosa significa che Gesù è una “persona”?
Cosa significa essere il “Signore”?
No, non credo che significhi essere “un” signore. Cioè avere un aspetto come il nostro – solo più anziano e più o meno bonario a seconda del periodo storico. Credo non significhi nemmeno che debba parlare la nostra lingua, ascoltare le nostre preghiere ed esaudirle come se fosse un “semplice” genio della lampada. E credo che già solo l’idea di potersi fare un’idea – scusate il bisticcio di parole – di dio sia sbagliata.
Sia peccare di idolatria, in un certo senso.
Allora che vuol dire “dio”? Che cosa intendiamo quando lo invochiamo? E che cosa intendeva dire Gesù, nella Bibbia, o i quattro evangelisti, o il salmista di tremila anni fa, o il re Salomone nelle sue “poesie”?
Io un’idea ce l’ho, ma è, appunto, la mia “idea”. Quindi, per ora, vi metto ogni volta tra parentesi alcune delle concezioni più diffuse: la Verità, il Senso, l’Essere, il “principio direttivo primario”di Marco Aurelio o il vostro proprio modo di vedere le cose e la vostra propria idea di Vita o di Mondo.
Se poi volete che approfondiamo, fatemelo sapere, e nei prossimi episodi di questa rubrica ci ragioniamo un po’ su.