racconti

Caro Amore

“Capo, oggi è il mio anniversario di matrimonio”, così gli ho detto. Non ho fatto nemmeno un’assenza, quest’anno, con l’eccezione di quella volta che mi sono ustionato con l’olio bollente. E comunque, quella volta non è stata colpa mia, ma del giunto della friggitrice che si era allentato: “Non mi sono lamentato, non ho denunciato e due giorni dopo sono tornato al lavoro, con questa cicatrice qua”. Così gli ho detto e poi gli mostrato il polso sfregiato. “Va bene”, ha risposto, e anche se si vedeva che era un po’ incazzato, mi ha fatto uscire tre ore prima. Mentre corro sotto la pioggia, e prendo le curve della Salaria a cento all’ora, mi domando se forse non ho esagerato a minacciarlo. Dio sa quanti problemi mi darebbe perdere il lavoro, soprattutto ora che Mara e io ci stiamo riprovando.
C’è un posto libero sul marciapiede sotto la bretella. C’è il divieto di sosta ma non credo che, con questo tempo, passeranno i vigili. Mi affretto sotto i balconi ed entro nel negozietto dell’indiano, dove compro il radicchio e gli straccetti di pollo. Prendo anche la torta, una torta grande così, e dieci candeline.
Chiamo l’ascensore ma ho fretta, devo mettermi a cucinare, perciò faccio le scale. Sono sette piani: non è una grande idea, lo ammetto, ma sapete com’è la fretta. Mara stacca da Panorama alle nove, quindi ho meno di quattro ore per organizzare la mia sorpresa.
Apro la porta mentre un tuono potente fa tremare tutte le finestre, mi tolgo le scarpe fradice e corro in cucina a posare le buste della spesa sul piano di lavoro accanto al lavello. Poi apro il tavolo pieghevole e avvicino i due sgabelli alti. L’appartamento non è grande, due piccole camere da letto e un salotto con angolo cottura, ma siamo all’ultimo piano e da contratto ci tocca un pezzo di terrazza coperta. Se non piovesse così forte, apparecchierei fuori. D’istinto, mi giro verso la porta-finestra e impreco tra me e me: Addio, sorpresa.
Mara è là fuori, seduta sui gradini interni della scala antincendio e lo sguardo rivolto verso la costa. È rientrata prima anche lei. Vedete, amarsi come ci amiamo noi ha anche degli effetti collaterali: per esempio ci vengono le stesse magnifiche idee.
Noto che ha una sigaretta in mano e la cosa un po’ mi dispiace. Il medico gliele ha vietate e in effetti è da quando siamo andati a visita che non la vedo con una di quelle schifezze. Ma oggi facciamo dieci anni di matrimonio e, me ne dimentico sempre, quest’anno compiamo entrambi quarant’anni. Quarant’anni: suona così male, considerato anche il fatto che, per vivere, io friggo patatine in un McDonald’s e lei sta alla cassa di un ipermercato per quasi dieci ore al giorno. Immagino che in questi giorni sia venuto qualche brutto pensiero anche a lei.
Svuoto le buste e tolgo la torta dalla confezione, apro il frigo e comincio a liberare il ripiano più alto, quando noto che sul microonde, accanto agli integratori e alla confezione aperta di un test di gravidanza, c’è una busta da lettere colorata. La prendo e comincio a strapparne il lato corto. Dentro ci sono un paio di pagine scritte a mano nella sua bella calligrafia azzurra.
“Caro amore, io ti amo così tanto”.
È da un bel po’ che non ci scriviamo. Quando ci siamo conosciuti, venti anni fa, lei viveva al Nord e io qui, ma in provincia. Avevo sbagliato l’ultima cifra del numero di cellulare di un amico e mi aveva risposto lei: quando si dice il destino. Per anni, ci siamo mandati delle lunghe lettere. Poi, lei ha perso il lavoro a scuola e io le ho proposto di venire a Roma, a vivere con me. Ci siamo scritti anche dopo che ci siamo sposati, però: è bello scriversi le cose. Ci siamo confessati i nostri segreti più grandi, nero su bianco. Abbiamo smesso qualche anno fa, quando ci siamo trasferiti in città e ci è successa quella cosa brutta. Sono davvero felice che oggi lei abbia ripreso la tradizione.
“Ti amo così tanto che non lo contengo. Devo pronunciare il tuo nome a voce alta perché a tenerlo dentro cresce ed esplode. Devo scriverti perché pensarti fa male. Ti amo, amore caro, e non si può smettere di amare in questo modo. Come un’esplosione che una volta innescata non può essere fermata: così ti amo, amore”.
Alzo gli occhi dal foglio e la guardo, mentre scruta ancora da quella parte, verso il mare nascosto dalle ciminiere delle vecchie fabbriche di detersivo. Da lì si vedono anche i grandi magazzini in cui lavora da ormai qualche anno. Dopo che anche l’asilo privato in cui aveva tentato, per un’ultima volta, di far valere la sua qualifica di assistente educativo aveva chiuso per debiti, Mara si era dovuta organizzare. Invio un sorriso segreto verso di lei e, con gli occhi un po’ umidi, torno a leggere.
“Siamo stati come uccelli, io e te: cambiava la tua direzione al cambiare della mia. Siamo stati come api o formiche, coordinati oltre il tempo e lo spazio. È stato così da quando ci siamo visti per la prima volta, sul prato della mia scuola. Da quando sei caduto all’indietro mentre io cadevo in avanti a mia volta, e hai allungato una mano per ripararti e io sono atterrata sulla tua. È andata così per così tanto tempo”.
Il ricordo di quel giorno mi fa ridere, ma cerco di trattenermi: voglio finire di leggere prima che si accorga che sono rientrato. Non voglio metterla in imbarazzo o rovinarle la sorpresa.
“E ci siamo mossi insieme, come ballerini al ritmo della stessa musica invisibile, fin dentro le tempeste della vita. Sei così bello, amore mio. Ogni volta che chiudo gli occhi, ti vedo ancora. Mentre respiro, sento il tuo odore. Se allungo una mano, anche adesso, che sei lontano, se tendo una mano posso toccarti”.
Guardo di nuovo verso di lei e per un attimo mi sento mancare il fiato: ha una mano tesa in avanti, oltre la ringhiera. Per un istante mi sembra che stia mimando quello che sto leggendo e non sarebbe nemmeno così strano: abbiamo sempre avuto un certo tipo di connessione. Ma sospetto stia solo scuotendo la sigaretta per far cadere la cenere nel vuoto. Un fulmine balena alle sue spalle. Quando arriva il tuono, torno alla lettera.
“Ho sentito il tuo amore crescere, sempre più forte, e avvolgermi, stringermi. L’ho sentito circondarmi e proteggermi, sempre più grande e potente. Quando sono arrivati i giorni bui e le notti più lunghe ti sei incendiato e hai illuminato entrambi. Il giorno che l’anima mi è stata strappata via, ti sei diviso e hai cominciato a soffiarmi dentro un pezzo della tua. Amore caro, quanto mi hai amata”.
Quella ferita è ancora viva, dentro di noi. Sono ferite difficili da rimarginare, potete capirlo. L’incidente ci ha portato via nostro figlio e per poco non mi ha tolto anche lei. Ci abbiamo messo anni, per riprenderci del tutto: siamo stati a lungo in terapia. Adesso, sono cinque mesi che ci stiamo riprovando: dopo averne parlato a lungo abbiamo deciso di diventare di nuovo genitori. Mi sono opposto per troppo tempo, convinto che un altro figlio non ci avrebbe ridato indietro quello che abbiamo perso, mentre secondo lei avrebbe contribuito a portare nella nostra vita un po’ più di luce. E adesso invece non vedo l’ora. Mi sposto su un lato della cucina, sono quasi al buio e comincio a faticare nella lettura. Accendo la lampadina dell’aspiratrice e controllo che lei sia ancora girata dall’altro lato. La pioggia cade sempre più forte, scuotendo con forza i pannelli coibentati. Non ha freddo, là fuori?
“Sono convinta che non sarei mai sopravvissuta a quello che è successo a Mattia, se non fosse stato per te. Senza di te, sarei morta molto prima”.
Molto prima? Non siamo morti, tesoro, siamo sopravvissuti, hai detto bene.
“Sei stato il mio sostegno, la mia forza e fortezza. Il vuoto terribile che mi si è aperto dentro, ho provato a riempirlo di te. Il conforto che altri cercano in dio, io ho provato a cercarlo in te. Abbiamo meditato, ci siamo medicati, siamo andati in analisi. Ma è stato stringendoci forte che siamo rimasti a galla. E ogni volta che mi sono smarrita, in te mi sono ritrovata. Odio ripetermi, ma così tanto, così tanto ti amo che non posso tenerlo dentro, devo dirtelo: ti amo quanto tutto il mondo, amore mio”.
Ti amo anche io, piccola mia. Ti amo da morire. Mi stacco dal mobile della cucina e, continuando a leggere, avanzo verso la finestra e la terrazza. Accelero la lettura, per finire in fretta, poiché devo abbracciarla il prima possibile.
“Ti amo così tanto che non ho la forza di aggiungere altro. Qualsiasi cosa dicessi di più, in qualsiasi modo mi giustificassi finirei per negare tutto l’amore con cui ti amo. Io ti amo e so che lo stesso vale per te. E so che è vero amore perché non abbiamo mai smesso. Quello che ho fatto, amore mio, non ha nulla a che vedere con questo”.
Quello che hai fatto. Mi fermo. Alzo lo sguardo e la cerco sulla terrazza: adesso è in piedi, con le mani sul cornicione. Cos’hai fatto? Allargo un braccio e mi sostengo dal tavolo, urto la torta con le dita e mi accorgo che la glassa si sta sciogliendo. Una parte di me vorrebbe preoccuparsi di questo e di altre cose futili.
“Quello che ho fatto piomberà nella tua vita come un fulmine a ciel sereno e quanti danni sarà destinato a fare. Non ho nemmeno la forza di chiederti perdono perché so che non potrai e so che non vorrò. Un giorno, forse, ci riuscirai, ma oggi è ancora presto e quel giorno è assai lontano”.
Una scarica di adrenalina mi fa compiere un balzo.
“Sappi solo che non c’entri tu: non hai nessuna colpa e, anzi, sei stato perfetto. Non c’entrano il lavoro, i soldi, la salute o le vicende della mia infanzia. Quello che ho fatto dipende solo da me, c’entro solo io. Che non ce la faccio più a vivere una vita che non mi merito”.
Merda. Merda. Merda! Balzo in avanti.
“Io ti amo così tanto e questo addio è una pena”.
Urto uno dei due sgabelli, che precipita a terra con un tonfo.
“Ma questo addio è l’ultima cosa che posso fare, con queste poche forze che mi rimangono”.
Mara si è girata verso di me, alzandosi sulle punte.
“Io ti amo così tanto e questa è l’unica certezza. Ma l’amore, forse, non basta all’amore”.
Ci guardiamo negli occhi per qualche interminabile secondo. Sento il mio cuore spegnersi, perdere un colpo.
“Io non mi sono amata mai”.
Il suo viso è infranto, come un quadro dalla tela strappata, è uno specchio rotto. Mara è sorpresa, spaventata, è risoluta.
“E non posso continuare a vivere di te”.
Corro in avanti, spingo le gambe con tutta la forza che ho. Lei butta la sigaretta a terra, rimbalza una volta, sembra troppo pesante, poi si gira e scavalca la ringhiera.
“Amore caro”.
Salto attraverso la finestra, con le mani protese in avanti, e volo fuori, rovinando sul pavimento di mattoni. Le manco la caviglia per qualche millimetro.
“Ti ho amato così tanto”.
Sul pavimento, al posto della sigaretta, c’è il test di gravidanza. Il display a cristalli liquidi mostra una sola lineetta verticale.
“Addio, amore caro”.

 

Racconto Secondo Classificato al 44° Premio Writers Magazine

L’immagine di copertina è una illustrazione originale
concepita per questo racconto dal maestro Stefano Fiorello

 

 

 

Salvatore “Saso” Tigani è un giornalista, scrittore e autore umoristico. È diventato famoso con Come sopravvivere ai Calabresi, ma ha scritto anche cose belle. Alcuni suoi racconti hanno vinto importanti premi letterari e compaiono in raccolte e antologie nazionali. Però è astemio.