“Sì, Saso, belle parole, bei ragionamenti, bei versetti… ma cosa diresti a chi ha un tumore in fase terminale? A chi ha perso tutto? A chi non una casa, né lavoro, né più speranza? Quando dici che dobbiamo pregare per ringraziare, mi viene da ridere. A me, credere di aver già ricevuto, a che serve? Tu ce l’hai la macchina, ce l’hai il computer, hai pure i capelli. È facile fidarsi del pane quotidiano quando hai anche il frigo pieno”.
— un lettore e amico
Un po’ me l’aspettavo, che prima o poi qualcuno me lo scrivesse. E come è successo, mi aspettavo che a scrivermi non fosse qualcuno che sta per morire, ovviamente – le persone a cui è stata diagnosticata la morte di solito cercano di non sprecare il tempo che gli hanno detto che gli resta – ma qualcuno che ha paura di morire, di ammalarsi, di perdere qualcuno di caro, in una parola… di confrontarsi con il mistero della vita: la sofferenza.
Ho pubblicato il tuo messaggio perché tra quelli che ho ricevuto, è quello che la prende un po’ più sul personale, marcando bene il proprio punto. E, sai che c’è, amico caro? Hai ragione.
Hai ragione davvero.
E oggi voglio provare a spiegare meglio il modo in cui suggerisco di leggere la Bibbia. Anche — e forse soprattutto — in casi come quelli che menzioni.
Perché, nei momenti in cui la vita ti crolla addosso, parole come “speranza”, “fede” o “provvidenza” suonano effettivamente false. Inutili. Offensive, persino.
E, credimi, non ho mai voluto offenderti.
NIENTE SLOGAN, SOLO COMPAGNIA NEL BUIO
Non esiste frase che cancelli il dolore. E la Bibbia, infatti, non ne propone. Semmai riconosce che il dolore esiste e che non sei “rotto”.
“Beati quelli che piangono, perché saranno consolati”
(Mt 5,4)
“Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato”
(Sal 34,18)
E quando nemmeno pregare è possibile, dice che
“Lo Spirito intercede con gemiti inesprimibili”
(Rm 8,26)
Perfino Gesù, davanti alla tomba di Lazzaro, “pianse” (Gv 11,35).
La fede non anestetizza: tiene accesa la brace umana sotto le macerie.
E la Bibbia — quella vera, letta senza bigottismo — non ti chiede mai di fingere che vada tutto bene. Non ti chiede di sorridere mentre muori. Ti chiede di stare dentro la notte senza mentire. E proprio in quella notte ti mette accanto qualcuno che ha pianto, che ha gridato, che ha detto:
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
(Matteo 27,46)
La Bibbia non è un manuale per vincere. È un libro per chi ha perso tutto.
Marco 11:24 dice:
“Tutto quello che domandate nella preghiera, credete di averlo già ricevuto e vi sarà dato”.
(Marco 11:24)
È il versetto che ti ha fatto arrabbiare. Ma quello proposto dall’evangelista non è un mantra da ripetere per ottenere miracoli: è un invito a guardare la realtà con occhi diversi. A dire: “Ok, la mia vita fa schifo, il dolore è reale, la perdita è reale… ma forse io non sono solo quella parte che soffre. Forse c’è in me qualcosa che non si spezza”.
Anche la scienza, in fondo, ci dice che non possiamo sapere tutto.
Non sappiamo che cos’è veramente la coscienza. Non sappiamo dove finisca l’universo. Non sappiamo nemmeno perché ci sia qualcosa anziché niente.
Eppure, siamo qui.
E questo — il fatto di essere qui, coscienti, vivi, anche nel dolore — è già qualcosa.
Gli psicologi della logoterapia, come Viktor Frankl (sopravvissuto ai campi di concentramento), parlano di una “libertà ultima”: la possibilità di scegliere l’atteggiamento con cui affrontare anche ciò che non possiamo cambiare.
Non è un trucco mentale. È l’unica via per restare umani anche quando il mondo ti disumanizza.
“DIO” È UNA PAROLA LOGORA MA ANCORA NECESSARIA
Oggi “Dio” suona come “favola” o “giudice”. Un tempo, però, questa parola nominava la connessione di tutto con tutto, l’idea che la realtà sia una sinfonia, non un mucchio di note stonate.
L’Atman, lo chiamano in oriente.
C’è in noi questa dimensione – spirito, anima, “campo quantistico di coscienza”, scegli tu – che neanche un tumore può intaccare.
Lascia quindi andare quella parte di te che si identifica invece col corpo, col possesso, col ruolo, col passato. Fai come dice il Buddhismo: “muori prima di morire”.
Chiediti:
Chi è che sta soffrendo?
e risponditi:
Sì, io. Ma non tutto me stesso. Non l’intero me, ma la parte che vive nel tempo. Solo quella parte che crede di essere soltanto un corpo, una carriera, un’identità.
Tu sei molto di più.
La Bibbia lo chiama spirito.
I fisici parlano oggi di una struttura profonda del campo cosciente.
Chiamiamola come vogliamo: è quella parte di te che non si spezza, anche quando tutto il resto crolla.
E bada che quella che ti propongo non è una “mistica della fuga”: è la semplice constatazione che l’io biologico è un frammento dentro qualcosa di immensamente più vasto.
IL PIANO PIÙ GRANDE
È da folli e da presuntuosi dire a qualcuno “guarirai di sicuro” – ma, secondo me, lo è anche dire “rassegnati, finirà male”. Entrambe le frasi pretendono di leggere un copione scritto in una lingua che non conosciamo. Quello della vita.
Isaia lo dice così:
“I miei pensieri non sono i vostri”.
(Is 55,8-9)
Paolo lo ribadisce:
“Imperscrutabili le sue vie”.
(Rm 11,33-34)
Qoèlet rincara:
“Non conosci l’opera di Dio che fa tutto”.
(Qo 11,5)
Meglio tacere, restare, accompagnare.
“Ciò che si spera, se lo si vede, non è più speranza”
(Rm 8,24-25)
Sperare, tuttavia non è illudersi: è scegliere di non chiudere la porta mentre tutto sussurra “è finita”.
In psicologia lo chiamano learned hopefulness: la capacità – allenabile – di tollerare l’incertezza senza collassare in disperazione. Studi recenti sul trauma (pensiamo a Van der Kolk) mostrano che il fattore protettivo decisivo è avere anche un solo filo di senso a cui tenersi.
La Bibbia offre una versione di quel filo:
“Fermatevi e riconoscete che io sono Dio”
(Sal 46,10)
che tradotto suona così: lascia andare il controllo, non sei solo nei corridoi bui. Credi che io sia dio (che ci sia un senso più grande) e lascia fare a me.
“Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli”.
(Es 14,14)
Non un invito a star fermo sul divano, quindi, ma a non basare la tua salvezza soltanto sulla tua forza. È la differenza fra nuotare controcorrente finché annaspi e, quando non ne puoi più, galleggiare lasciandoti portare – non dalla corrente dell’inerzia, ma da una realtà che forse ne sa più di te.
Apro una parentesi, velocissima: All’inizio, il famoso Metodo degli Alcolisti Anonimi, oggi diffuso in tutto il mondo e statisticamente dimostrato come efficiente, non funzionava. Negli anni Trenta, William Griffith Wilson – detto Bill W. – era un ex broker di Wall Street affondato nell’alcolismo. Dopo numerosi ricoveri al Towns Hospital di New York, tentativi falliti con cure farmacologiche (come la somministrazione di belladonna) e promesse mai mantenute, sembrava senza via d’uscita. Fu durante uno di questi ricoveri, nel dicembre 1934, che accadde qualcosa: un’esperienza mistica sotto effetto di sedativi e allucinogeni. Una luce. Una voce interiore. Un senso di liberazione. Da quel momento, Wilson non bevve più.
Ma guarire sé stesso non gli bastava. Si unì all’Oxford Group, un movimento protestante radicale basato su principi morali, confessione dei peccati e affidamento a Dio. Provò a salvare altri alcolisti, ma senza successo: il metodo restava troppo moralista, e chi beveva ricadeva. La svolta arrivò con l’incontro, nel 1935, con il medico di Akron (Ohio), Robert Holbrook Smith – noto come Dr. Bob – anch’egli alcolista cronico. Dopo settimane di dialoghi, preghiere e condivisione, anche Bob smise di bere. Era nata la prima cellula di quella che, nel 1939, sarebbe diventata Alcoholics Anonymous.
Il cambiamento decisivo fu l’introduzione di un concetto chiave: l’impotenza dell’alcolista davanti alla sostanza, e la necessità di affidarsi a un “Potere Superiore”. Questo principio, preso in parte dall’Oxford Group e influenzato dagli scritti di William James (The Varieties of Religious Experience), divenne il cuore dei celebri Dodici Passi. Non bastava voler smettere: bisognava riconoscere di non potercela fare da soli, e chiedere aiuto a qualcosa – o qualcuno – di più grande di sé. Solo così il metodo cominciò davvero a funzionare.
AIUTATI CHE DIO T’AIUTA?
Come ho detto, però, tu hai ragione, e continui ad averne. Anche dopo queste altre, ennesime belle citazioni. Per questo ci chiediamo ancora: che farsene di tutto ciò se hai fame?
Ecco, io credo che sia proprio qui che la speranza biblica diventa etica concreta: se davvero “siamo uno”, la mia fede mi obbliga a muovere le mani.
Giacomo è brutale:
“A che serve dire ‘va’ in pace’ se non dai all’affamato ciò che serve al corpo?”
(Gc 2,15-16)
Tradotto: pane, visite, soldi, psiconcologo, avvocati, reti di mutuo aiuto. La spiritualità che non si sporca col fango della storia è solo un narcotico e per giunta uno dei meno efficienti.
NON CHIUDERE LA PORTA
In sintesi, la Bibbia – come molte altre vie sapienziali – non ti dà un perché chiaro né una ricetta facile. Ti dice che il futuro è più grande di qualunque previsione, quindi abbandona la presunzione di capirlo.
La Bibbia ti dice che, ok, tutto sembra andare a puttane, ma “non puoi sapere”. Non puoi sapere se domani le nuove tecnologie troveranno una cura, se ce n’è già una in fase di test da qualche parte nel mondo della ricerca, se il tuo corpo sta lavorando senza dirti nulla per combattere, con la sua propria saggezza, una malattia che la medicina non ha ancora capito.
La Bibbia ti dice che, sotto la frattura, c’è ancora un filo di vita che non si spezza. E ti chiede di afferrare quel filo per restare umano – e, quando puoi, allungarlo a chi è ancora nel buio.
“Speriamo ciò che non vediamo, lo aspettiamo con perseveranza”.
Romani 8:24-25
Sperare non significa illudersi. Significa scegliere di non chiudere la porta.
Significa dire: io non so come andrà. Ma scelgo di non spegnere la luce dentro, finché posso.
“Lasciare fare” non significa rassegnarsi. Significa smettere di voler controllare tutto.
Lasciare che anche la parte invisibile della realtà faccia la sua parte.
Che si chiami Dio, Universo, Campo quantico, o Mistero, c’è qualcosa che non controlli. Ma che ti tiene.
NESSUNO SLOGAN, NESSUNA GARANZIA
Allora forse il versetto di Marco 11:24 che ti ha innescato – “credete di aver già ricevuto” –, spingendoti a scrivermi, non è una formula magica.
È un invito a cambiare sguardo.
Non credere che tutto vada bene. Ma credere che, anche se non va bene, qualcosa dentro di te tiene ancora il filo.
E magari quel filo è sottile, tremolante.
Ma se lo tieni — o se lui tiene te — non sei finito.
Non sei solo il tuo tumore.
Non sei solo la tua perdita.
Non sei solo la tua paura.
Sei parte di una sinfonia infinita.
E anche se il tuo assolo oggi è in minore, non è meno vero.
Non è meno sacro.