Abitare il feed – Effetti cognitivi ed emotivi della nostra dieta digitale

Ogni giorno, più o meno senza accorgercene, passiamo ore esposti a contenuti digitali. Apriamo Instagram mentre aspettiamo il caffè. Scrolliamo Twitter (o X, come ora si chiama) tra una riunione e l’altra. Lasciamo YouTube in sottofondo mentre cuciniamo, o TikTok mentre siamo stesi a letto. Non ci sembra di “fare” niente di particolare. Eppure, senza volerlo, stiamo nutrendo la nostra mente.

Questo articolo parte da un’idea molto semplice e ampiamente documentata: ciò che guardiamo, ascoltiamo e leggiamo ogni giorno ha un effetto diretto e misurabile sul nostro modo di pensare, sulle emozioni che proviamo, e sulle percezioni che abbiamo del mondo.
E non è solo questione di “quanto” tempo trascorriamo sui social. È anche—e forse soprattutto—una questione di cosa ci viene mostrato. Della qualità del nostro feed.

Il “feed” è il flusso continuo di contenuti che vediamo ogni volta che apriamo una piattaforma: immagini, video, testi, commenti. È personalizzato in base ai nostri gusti, alle nostre interazioni, a quello che abbiamo guardato in passato. Ma non lo costruiamo noi in modo attivo: è il frutto di algoritmi che hanno l’obiettivo di massimizzare il nostro tempo di permanenza.

Per esempio: se per qualche giorno interagiamo con post polemici o negativi, l’algoritmo ci proporrà altri contenuti simili. Perché funzionano: ci colpiscono, ci fanno restare lì, anche solo per indignarci.
Così, a lungo andare, possiamo trovarci dentro un ecosistema che ci appare “normale”, ma che in realtà è fortemente selettivo: un ambiente dove si litiga molto, si ironizza su tutto, si amplificano le emozioni forti (rabbia, paura, invidia), e si lascia poco spazio a pensieri più lenti, ambigui o complessi.

Cosa succede quando viviamo immersi ogni giorno in questo tipo di ambiente?

La psicologia cognitiva ci offre un primo spunto importante. Si chiama effetto di mera esposizione (mere exposure effect), ed è stato descritto per la prima volta dallo psicologo sociale Robert Zajonc nel 1968. In parole semplici: più un contenuto viene riproposto, più tenderemo a trovarlo accettabile, familiare, persino piacevole. Anche se inizialmente ci lasciava indifferenti o ci sembrava fastidioso. È un meccanismo di base del nostro cervello, legato all’evoluzione: ciò che si ripresenta, nel tempo, viene percepito come sicuro. Come qualcosa che “può restare”.

Questo vale per un volto, per una canzone, per un simbolo. Ma anche per modi di pensare.
Se passiamo le nostre giornate esposti a contenuti che ridicolizzano l’empatia, esaltano la competizione, trasformano ogni problema in una guerra tra “buoni e cattivi”, o promuovono un’idea del successo fondata sul disprezzo per la debolezza, è probabile che, a lungo andare, finiremo per incorporare almeno in parte quella visione del mondo.
Non perché siamo deboli. Ma perché funzioniamo così.

Questo tipo di influenza non è un’opinione. È stato misurato. Uno studio pubblicato nel 2014 su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), condotto da un team interno a Facebook, ha dimostrato che modificando il contenuto emotivo del feed di 689.000 utenti (rendendolo leggermente più positivo o più negativo), anche i post scritti dagli utenti stessi cambiavano tono. In pratica: l’umore si contagia, anche senza interazioni dirette. È un effetto “a specchio”, che riguarda in particolare le emozioni più intense.

Altri studi recenti, pubblicati su riviste come Nature Communications, hanno confermato che il tono emotivo prevalente nei contenuti che consumiamo online influenza direttamente il nostro stato d’animo e la qualità del pensiero.
E questo vale in particolare per contenuti che stimolano rabbia, paura, senso di esclusione o disprezzo.

Un altro fenomeno ormai oggetto di ricerca è quello del doomscrolling: il comportamento che ci porta a consumare, spesso compulsivamente, contenuti negativi o disturbanti, anche quando ci rendiamo conto che ci fanno stare peggio.
Non si tratta di masochismo, ma di un’illusione di controllo. Quando ci sentiamo ansiosi o impotenti, possiamo finire per cercare ancora più informazioni, quasi sperando di trovare “la notizia definitiva” che ci tranquillizzi. Ma non arriva mai.
Uno studio pubblicato nel 2024 dall’Università della Florida ha collegato il doomscrolling a una forma di ansia esistenziale: più consumiamo contenuti che dipingono il mondo come fuori controllo, più perdiamo la speranza che le cose possano migliorare.
E la perdita di speranza è uno dei fattori principali che alimentano ansia, apatia e chiusura sociale.

La domanda, a questo punto, non è più “quanto tempo stiamo sui social”. È: che tipo di mondo ci stiamo abituando a vedere ogni giorno?
E, ancora più importante: quanto quel mondo corrisponde alla realtà? Perché la ripetizione non è verità. La viralità non è credibilità. Ma se non ce ne accorgiamo, rischiamo di confondere il rumore di fondo con la nostra voce interiore.

Per questo ha senso ripulire il feed. Non per cercare contenuti “felici” o illudersi che il mondo sia semplice. Ma per uscire dal circolo vizioso della reattività costante, dell’ironia difensiva, dell’indignazione come passatempo.
Ci sono contenuti che nutrono la mente. E altri che la colonizzano.

Tornare a scegliere cosa guardare è, forse, uno dei pochi gesti ancora radicali che possiamo fare.

Fonti principali:

  • Zajonc, R. B. (1968). Attitudinal effects of mere exposure. Journal of Personality and Social Psychology
  • Kramer, Guillory, Hancock (2014). Experimental evidence of massive-scale emotional contagion through social networks. PNAS
  • Ferrara et al. (2023). Contagion of emotions in social media. Nature Communications
  • Akbari et al. (2024). Doomscrolling and existential anxiety: new patterns of digital behavior. University of Florida
  • APA (2021). The mental health effects of social media use. American Psychological Association