L’amore perfetto scaccia la paura

Da quando ho iniziato a scrivere questa rubrica, mi succedono cose curiose. Jung le avrebbe chiamate sincronicità: non coincidenze, e nemmeno segni divini. Piccoli cortocircuiti di senso che si accendono nel momento giusto.

Ieri, per esempio, stavo cercando una chiave di lettura per tre versetti che mi ero appuntato a distanza di tempo su un vecchio bloc notes che non tocco da anni, quando nel feed IG mi è comparso un post, e da lì è partita una conversazione con un amico che ha acceso qualcosa.

Ne è uscita una riflessione che provo a condividere qui sotto. Come sempre: sono pensieri miei, ispirati dalla mia storia, dalle mie ferite e dal mio modo — personale, limitato, ma sincero — di guardare il mondo. Non sono verità rivelate, né tanto meno prediche. Sono riflessioni sulla fine del mondo (per citare un bel libro), ma soprattutto su come non finire con esso.

Come al solito, parlando di “Dio”, intendo sempre quel senso ultimo della vita che ognuno di noi è chiamato a trovare per sé. Non è il dio con la barba di tanta iconografia, ma un dio molto più vicino a quello che Marco Aurelio chiamava principio direttivo: una parte profonda che ci orienta, che ci rende più umani — e più liberi. Sono, sì, riflessioni spirituali, ma non confessionali. E anche se partono dalla Bibbia, provo ad astrarle nella maniera piùl laica possibile.

«L’uomo guarda all’apparenza, ma il Signore guarda al cuore.»

— 1 Samuele 16:7

Il primo Versetto del Giorno nasce da una scena concreta: il profeta Samuele si presenta a casa di Iesse per scegliere, su indicazione di Dio, il futuro re di Israele. Davanti a sé trova giovani forti, belli, carismatici. Eppure, nessuno di loro è scelto. Alla fine, Dio indica Davide, il più piccolo, il più trascurato, il pastore che nemmeno era stato invitato al banchetto.

Nella tradizione ebraica, il “cuore” (lev) è il centro della coscienza, il luogo del discernimento e della verità. Non è la sede dei sentimenti, come nell’uso moderno, ma il punto più profondo dell’essere. Quando si dice che Dio guarda al cuore, si intende che guarda alla verità ultima della persona — non al suo ruolo, né al suo corpo, né al suo curriculum.

Oggi potremmo dire: non ti definisce il tuo profilo pubblico, né quello digitale. Né il tuo corpo, né il tuo passato. La tua identità non è nei dati, nei titoli, nei like. È in quel punto invisibile che solo tu, se vuoi, puoi abitare davvero. È lì che risuona il tuo vero nome. E forse per questo è anche il luogo più difficile da raggiungere. Ci si perde, a furia di sguardi esterni. Si finisce per vivere in superficie. Ma la superficie non è mai libera: è sempre territorio occupato.

«Nell’amore non c’è paura; al contrario, l’amore perfetto scaccia la paura, perché la paura suppone un castigo; e chi ha paura non è perfetto nell’amore.»

— 1 Giovanni 4:18

Questo versetto viene da una delle lettere più dense e disarmanti del Nuovo Testamento. Giovanni parla dell’amore come di qualcosa che non viene da noi, ma da Dio, e che può abitare in noi solo quando smettiamo di chiuderci. L’amore non è un sentimento da provare, ma una condizione da permettere.

E la paura, qui, è l’opposto: non perché faccia male, ma perché spezza la fiducia. La paura suppone un castigo: cioè si aspetta che qualcosa vada storto, che ci sia un prezzo da pagare, che il mondo sia un tribunale. E allora chi ha paura non può amare pienamente: è troppo occupato a proteggersi.

Questa frase non è una condanna: è una diagnosi. Dice che ogni volta che viviamo mossi dalla paura — di perdere, di sbagliare, di non essere all’altezza, di essere fregati, controllati, annientati — stiamo rinunciando a qualcosa di molto più prezioso. Non si può amare e temere allo stesso tempo. E non si può essere davvero liberi, finché si è in fuga.

L’amore, in questa visione, è il contrario del sospetto. È un atto rivoluzionario di fiducia nella vita. Ed è da lì, non dalla rabbia o dal controllo, che nasce la vera forza interiore.

«Essa costringeva tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, a farsi mettere un marchio sulla mano destra e sulla fronte, e nessuno poteva comprare o vendere se non aveva il marchio.»

— Apocalisse 13:16-17

Questo passo è stato letto in molti modi. Alcuni pensano che descriva sistemi futuri di sorveglianza, moneta digitale, controllo identitario. Ma l’Apocalisse è un libro visionario, fatto di simboli, e la sua forza sta proprio lì: parla di ogni tempo.

La “bestia” non è un’entità specifica, ma qualunque forza disumanizzante che pretende fedeltà assoluta. Il suo marchio non è un chip o un tatuaggio: è l’adesione interiore a una logica di dominio. È quando abdichi al tuo cuore, e lasci che qualcun altro — il potere, il denaro, la paura, la massa — pensi per te.

Il marchio sulla fronte e sulla mano indica qualcosa di molto preciso nel simbolismo biblico: la fronte è il pensiero, la mano è l’azione. Cioè: sei marchiato quando la tua mente e le tue scelte non sono più libere, ma rispondono a un padrone esterno.

Il punto non è evitare il marchio. Il punto è non adorare la bestia.

Non darle autorità. Non darle tutto te stesso.

Perché il vero pericolo non è ciò che ti fanno. È chi scegli di servire.

La vera libertà non sta nel difendersi da ciò che viene da fuori, ma nel sapere da dove vengono le tue scelte.

E allora, sì: viviamo in un tempo in cui le identità vengono registrate, classificate, vendute. I nostri gusti, i nostri movimenti, perfino i nostri silenzi vengono collezionati, confrontati, trasformati in profilo.

Stati, aziende, algoritmi ci conoscono sempre meglio, e non è detto che sia sempre un male. Ma una cosa è certa: nessuno può raccogliere il cuore. Nessuno può decidere per te a cosa pensi, che valore dai alle cose, chi vuoi diventare.

Ed è lì che ci si gioca tutto.

Non nella firma. Non nel badge.

Ma nella fedeltà a ciò che non si vede.

Nel non vendere il cuore per un po’ di protezione.

Nel ricordare — ogni giorno — che la vera identità è in ciò che non si può marchiare.