Quanti sono i 10 comandamenti?

Quanti sono i comandamenti?

“Dieci!”, risponderanno i miei giovani lettori. E invece no. Sono… 613. Sì, proprio così. Secondo la tradizione ebraica, i mitzvot contenuti nella Torah sarebbero ben 613: 248 prescrizioni positive (“fai questo”) e 365 negative (“non fare questo”), contate per la prima volta sistematicamente dal rabbino Mosè Maimonide nel XII secolo, nel suo Sefer ha-Mitzvot.

E per prenderne uno a caso, giusto per capire quanto possa essere fuorviante considerare il decalogo come sintesi definitiva della Legge, parliamo di quello che riguarda i genitori: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12; Dt 5,16).

Ma facciamo prima un passo indietro: la Torah non inizia dagli obblighi. La Torah non inizia neppure con un divieto, a dirla tutta. Perché la Legge è “ordine” nel senso di descrizione di un funzionamento (dell’ordine del mondo, come le leggi naturali), non di imposizione (in senso militare, come purtroppo, molto spesso vengono letti e spiegati i dettami biblici – ma è la stessa confusione che generano i concetti orientali di Karma e Dharma, per dire). La Scrittura inizia con la descrizione di un legame: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa della schiavitù» (Es 20,2). È una dichiarazione di relazione, non un ordine. Il patto precede la norma. L’alleanza viene prima della morale. La Legge nasce da un legame d’amore, e non da un codice impersonale.

Ecco perché, se si prende solo il comando “Onora tuo padre e tua madre” e lo si isola dal resto del testo biblico, si finisce per trasformarlo in un imperativo vuoto, o peggio, in un’arma. Una di quelle armi che hanno ferito intere generazioni di figli, incapaci di difendersi da genitori anaffettivi, autoritari, violenti, manipolatori, o semplicemente immaturi. Quante volte, nel contesto della cosiddetta educazione cattolica, questo comandamento è stato usato per zittire i figli, negare le loro emozioni, scoraggiare il pensiero critico, esigere obbedienza cieca? Eppure, la Scrittura è molto più onesta e complessa. Non parla solo dei doveri dei figli, ma anche – e con chiarezza – di quelli dei genitori.

Il nostro quarto comandamento compare in realtà due volte nella Bibbia ebraica (che corrisponde all’Antico Testamento cristiano). Ecco dove:

Esodo 20,12:

«Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore tuo Dio ti dà.»

e

Deuteronomio 5,16:

«Onora tuo padre e tua madre, come il Signore tuo Dio ti ha comandato, perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà.»

Entrambe le versioni saranno scelte in seguito per far parte del Decalogo (i nostri Dieci Comandamenti), ma quella di Deuteronomio è una ripresa con alcune variazioni del testo di Esodo. Nella versione di Deuteronomio si aggiunge: «…e tu sia felice…», oltre alla promessa della lunghezza dei giorni.

Il comandamento infatti non si ferma a un obbligo astratto. Collega l’onore verso i genitori a un beneficio esistenziale e comunitario:

– la longevità personale

– la stabilità nella terra promessa

– e, in Dt 5,16, anche la felicità.

È importante notare, e per questo lo sottolineo ancora, che non è una minaccia, ma una logica di benedizione: onorare le radici permette alla vita di durare e prosperare.

E infatti, se non ci fermiamo al Decalogo e cerchiamo nella Bibbia altre tracce di questa “guida al rapporto coi genitori”, vediamo che in Efesini 6,4 Paolo scrive:

«E voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore».

Il versetto precedente chiede ai figli obbedienza, sì, ma subito dopo arriva la controparte: non suscitare rancore, non umiliare, non schiacciare.

Colossesi 3,21 ribadisce:

«Padri, non irritate i vostri figli, perché non si scoraggino».

Il verbo è forte: scoraggiarsi significa perdere la linfa vitale, spegnersi. La Bibbia riconosce che un certo tipo di educazione – quella che impone senza ascoltare, punisce senza spiegare, controlla senza amare – uccide dentro.

E in Proverbi 20,7 leggiamo:

«Il giusto cammina nella sua integrità; beati i suoi figli dopo di lui!»

Il genitore integro genera benedizione, non perché chiede onore, ma perché lo merita con la sua vita. Non c’è bisogno di urlare “rispetto!”, se lo si incarna.

E poi, c’è Gesù. Gesù che rompe con le forme vuote, anche a costo di apparire scandaloso. In Matteo 10,37 dice:

«Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me».

E non sta parlando di odio, ma di libertà: nessun legame umano può diventare assoluto, neanche quello genitoriale. L’amore per Dio è la misura di ogni altro amore.

Se avete letto i precedenti post, saprete a questo punto che nella nostra esegesi amatoriale intendiamo “Gesù” non solo come personaggio (storico o meno) ma anche come metafora della realizzazione del sé. Quindi:

“Chi ama il padre o la madre più della Verità – più dell’ordine delle cose, mi viene da dire, che include anche il diritto e il dovere a diventare pienamente sé stessi, liberandosi di tutti i condizionamenti, non solo famigliari ovviamente – non è degno di me – e cioè non manifesterà pienamente sé stesso”.

I Marco 7,9-13 Gesù, tuttavia, denuncia i farisei che usavano la religione per eludere i propri doveri verso i genitori, accusandoli però proprio perché tradivano il cuore del comandamento: non è il formalismo che conta, ma l’amore concreto. L’onore, per Gesù, è verità, non apparenza.

Dal punto di vista pedagogico, tutto questo ha implicazioni enormi. Educare non è plasmare secondo un ideale, ma tirare fuori ciò che è autentico. Educere, in latino, vuol dire proprio questo: condurre fuori. Ma se un figlio cresce sentendo che il suo unico compito è “onorare”, anche quando l’altro non lo fa per primo, allora non cresce: si adatta, si spegne, si sottomette. E quando la religione legittima questa dinamica, non è più fede, è idolo.

L’onore, nella Bibbia, non è mai cieco. È relazionale, bilaterale. Non è una pretesa gerarchica, ma una risposta alla giustizia vissuta. È per questo che in Siracide 30,1-13, pur nella durezza del linguaggio antico (con la famigerata “verga”), il senso complessivo rimane lo stesso: il padre che corregge lo fa per salvare la vita del figlio, non per dominare.

Lo fa per amore, non per vanità.

Allora forse dovremmo dirlo così: onora tuo padre e tua madre se ti hanno onorato come figlio. Oppure: onora chi ti ha amato, non chi ha solo preteso. Oppure ancora: onora come puoi, ma non adorare. Perché adorare i genitori, quando non sono all’altezza del loro compito, fa solo danni. Perché ci sono padri e madri che non hanno voluto o potuto crescere, ma pretendono che i figli rimangano piccoli come loro. E perché ci sono figli che onorano guarendo da quello che hanno subito. Guarendo senza distruggere. Prendendo il buono, rielaborando il male, e camminando oltre.

Forse il modo più profondo di onorare i genitori è proprio questo, allora: portarli con sé, senza portarne il peso. Amarli anche dicendo loro la verità. Smettere di mentire per proteggerli, smettere di fingere per compiacerli. E magari, un giorno, essere per altri – per i nostri figli reali o simbolici – quel che avremmo voluto ricevere.

Un figlio che dice “mi hai fatto del male”, ma continua ad amare, sta onorando Dio e quindi sé stesso e la vita stessa. E — paradossalmente — anche il padre e la madre. Perché l’onore autentico non è obbedienza cieca, ma verità incarnata. E Dio, in fondo, non chiede figli perfetti. Chiede figli veri.

Amate il padre e la madre, mi piace dirlo così, e onorate le vostre radici, senza però dimenticarvi di amare voi stessi e la Verità, e la vita che con loro condividete.