DAL MOSTRO DELLA LAGUNA AL LUCERTOLONE DI CLOVERFIELD: È SEMPRE PIÙ DIFFICILE DARLA A BERE ALLO SPETTATORE. Nelle prime scene de Il mostro della laguna nera, la creatura fa la sua prima apparizione nuotando in maniera alquanto goffa per essere un’entità marina. I fondali sono palesemente di cartapesta, così come il pugnale brandito da Lucas nello scontro con Mark è visibilmente di plastica. E sul viso del mostro non ci sono segni di vita (né di sofisticati impianti robotici per dare espressione al volto, quali quelli utilizzati nei moderni Jurassic Park, Alien o Gremlins)[1]. Eppure, il film ha saputo a suo tempo assicurare “spavento e horror in giuste dosi”[2]. Oggi, tuttavia, il film fa sorridere e risulta spesso noioso, banale ai più. Per suscitare “spavento e orrore” oggigiorno il cinema deve sempre più fare ricorso alla tecnologia e all’ingegno delle industrie di effetti speciali, onde rendere più fotorealistica e quindi più verosimile possibile la rappresentazione. Il viaggio degli effetti speciali nel cinema comincia con Maries-Georges-Jean Méliès, un ex prestigiatore che accidentalmente scoprì il trucco della sostituzione e per primo adoperò dissolvenze ed esposizioni multiple (oltre ad essere stato uno dei pionieri del colore, che dipingeva a mano sulla pellicola) raggiungendo l’apice del successo con l’Industrial Light & Magic[3] di George Lucas (che ha reso “credibile” un’epopea fantasy a metà tra fantascienza e mitologia); tanto che nei film di oggi è sempre più difficile (a volte praticamente impossibile) distinguere il falso dal vero: i capelli del Principe Azzurro, nella trilogia di Shrek, sono un magistrale esempio dei progressi in questo campo. L’innovazione tecnologica si è spinta a tal punto che lo spettatore contemporaneo, sovraccarico di effetti speciali e mostri che sembrano veri, ha cominciato a “subire”, in un primo tempo, la prossimità del mezzo cinematografico, e successivamente ad abbisognarne sempre di più. Complice anche il progresso nel campo dei videogame, dove l’interattività sfiora la realtà virtuale. Si è sviluppata, infatti, negli ultimi tempi una nuova tendenza: la ricerca di una sorta di “realismo estremo”, un tentativo di portare il “patto con lo spettatore” al limite massimo, oltre la famosa frase iniziale “questo film ricostruisce una storia realmente accaduta”. Per il nuovo spettatore, sempre più incredulo[4], la frase è diventata: “Questa ‘è’ una storia vera, documentata in diretta: tutto ciò che vedrete è accaduto realmente”. Le videocamere digitali ultraleggere hanno fatto il “grosso” del lavoro. Il marketing ha pensato al resto. SOSPENSIONE DEL’INCREDULITÀ. Il primo a parlarne in questi termini fu Samuel Taylor Coleridge[5], ma del concetto si ha coscienza sin dai tempi di Shakespeare[6]: entrambi riconoscevano il tacito accordo tra drammaturgo e spettatore, per il quale quest’ultimo si impegnava ad “accettare” la finzione della messa in scena permettendo all’autore di portarlo in un mondo altro, durante le ore dello spettacolo. Se al teatro la convenzione della cosiddetta “quarta parete”, come limite immaginario tra realtà e finzione,continua ad essere accettata con la stessa facilità da Aristotele ai giorni nostri, nel campo cinematografico lo spettatore è stato, con il progredire della tecnica, via via sempre più “viziato”, fino a diventare incredibilmente restio e difficile da convincere a stringere il patto. In assenza del quale, è opinione comune[7], la fruizione del film sarebbe incompleta, imperfetta, o addirittura impossibile. Il modellino dell’Empire State Building del primo King Kong, se fosse riutilizzato in un film dei nostri giorni, provocherebbe il conseguente ed immediato rigetto di ogni virtuosismo registico, trovata narrativa o prova attoriale. Il pubblico non è più disposto a fare il lavoro sporco dello spettatore di cinquant’anni fa e delega lo sforzo immaginativo ai creatori di sogni dell’industria di effetti speciali. È così possibile, oggi, credere per centoventi minuti a storie di alieni che si massacrano nello spazio o alla maledizione di una prima luna caraibica purché non si vedano i fili che muovono le marionette (che si tratti di una texture poco curata sul viso di un extraterrestre creato al computer o di un microfono penzolante sulla testa dei pirati della Perla Nera nel film con Johnny Deep). Il patto, naturalmnete, non contempla soltanto mostri e astronavi, ma anche la psicologia dei personaggi, le premesse della storia o lo stesso mezzo attraverso cui le vicende vengono narrate. Così, se si accetta che un gruppo di ragazzi abbia incontrato una strega nel bosco e abbia documentato le vicende con una macchina da presa amatoriale, allora quella strega potrà sfoggiare tutti i poteri che lo sceneggiatore avrà cuore di darle senza che lo spettatore dica “questo è troppo”. Nel momento in cui però l’attore mostrasse un attimo di autocoscienza, tradendo il fatto di essere un attore e di esserne consapevole, questo romperebbe il patto, infrangendo il quarto muro cinematografico. MOCKUMENTARY VERSUS DOGMA. Il cinema ha visto negli ultimi tempi due tendenze opposte e nel contempo apparentate dalla stessa origine: la risposta al bisogno di verosimiglianza estrema. Nel falso-documentario (o Mockumentary), l’argomento trattato dal regista attraverso gli strumenti del documentario raggiunge uno spettatore più predisposto a crederci: si tratta della dissimulazione di una bugia grazie a un mezzo solitamente al servizio della verità. Tra gli esempi più celebri, Zelig di Woody Allen fa proprie le peculiarità del documentario storico raccontando una storia indubbiamente falsa ma altrettanto efficacemente capace di plausibilità. Ciò che un documentario tradizionale suscita nello spettatore è, infatti, il dubbio che tutto il narrato possa essere stato inventato (una recente trasmissione Usa[8] ha affrontato il primo sbarco sulla luna alla luce della teoria del complotto formulata dall’americano Bill Kaysing nel suo libro We never went to the moon, del 1976, analizzando immagini e trasmissioni dell’epoca allo scopo di reperire indizi su fantomatici effetti speciali utilizzati per rendere realistico l’evento), un falso documentario invece inverte questo processo trasformando il dubbio dello spettatore in “potrebbe essere vero?” (per rimanere nell’esempio del primo allunaggio, il mockumentary Operazione Luna – Kubrick, Nixon e l’uomo sulla Luna[9], del 2002, ricostruisce il complotto operando per renderlo plausibile e chiama in causa l’ipotetico coinvolgimento del presidente Nixon e del regista Kubrick). Film come Accordi & Disaccordi (ancora di Allen), Forgotten Silver di Peter Jackson, o…