LOST IN PORTOGALLO EP. 1 – VIAGGIO FUORI PROGRAMMA
Il 29 luglio scorso sono stato a Treviso per una visita medica. Sono arrivato il giorno prima, ho pernottato in un ottimo B&B affacciato sul Canale Cagnan, ho cenato per due sere di fila a base di carne al Ristorantino di Piazza Sant’Agostino e sono ripartito il 31 luglio. Il volo di ritorno per Lamezia Terme era previsto per le 11.25, così sono arrivato in aeroporto con due ore di anticipo: ne ho approfittato per comprare una bottiglia di vino al Duty Free, un fumetto e del cibo spazzatura per il viaggio. Alle 10.50 ho strisciato la carta di imbarco digitale sul lettore di QrCode, mostrato la carta di identità e riso con la hostess del fatto che la foto “non mi somiglia per niente”, mi sono infilato nella calca e sono salito in cabina, entrando dalla porta davanti, come da istruzioni. Ho mostrato il cellulare all’assistente di volo che mi ha accompagnato sull’ala, dicendomi, in un inglese molto preciso, che non avrei potuto tenere lo zaino tra le gambe, libri o bottiglietta d’acqua in mano, fino alla fine del decollo. Quindi mi ha spiegato perché: ero seduto accanto all’uscita di emergenza e, come il signore che occupava il posto dietro di me e gli altri due passeggeri sulla fila opposta, avrei dovuto memorizzare alcune semplici operazioni da svolgere in caso di emergenza. «Non succede», ci ha detto, «ma se succede… dovrete alzare lo sportellino, tirare la leva e…». «…Pregare», ho aggiunto io, ritenendo la preghiera l’unica cosa realmente utile in caso di incidente aereo. Abbiamo riso tutti, mentre la hostess ripeteva velocemente a me e agli altri «responsabili» tutte le istruzioni e ci chiedeva se avessimo capito. Nel frattempo, la voce gracchiante del capitano diceva qualcosa negli altoparlanti. Il volume però era basso, il suo inglese affettato e, devo ammetterlo, io ancora troppo concentrato sulla decodifica delle istruzioni della hostess. Dopo il decollo ho cominciato a chiacchierare con la vicina di posto, passando un paio di ore piacevoli.
Quando l’aereo è atterrato, ho guardato l’orologio e ho visto che segnava le 13 e 40. L’arrivo a Lamezia era previsto alle 13.00. Mi sono così lamentato del ritardo con la vicina e lei ha scosso la testa: «Siamo partiti un po’ in ritardo in effetti». «Giusto un po’, sì», ho sorriso (quaranta minuti!). Ho acceso il cellulare e ho provato a chiamare la mia ragazza, venuta a prendermi all’aeroporto e in attesa, secondo il mio orologio, da almeno un’ora. Ho cercato il contatto su WhatsApp e cliccato sull’icona della cornetta in alto a destra, accanto al nome. Nessuna rete. Mentre tutti cominciavano a lasciare il velivolo, ho notato una notifica a forma di triangolino: «La connettività dati è caduta perché è rimasta impostata la rete nazionale». Si è rotto il telefono, ho pensato, che sfortuna. Ho provato a riavviare ma senza successo. Il sistema mi ha dunque consigliato di attivare il traffico dati in roaming e io ho declinato l’offerta, facendo partire una chiamata tradizionale.
Mentre il segnale di linea libera tardava ad arrivare, ho recuperato lo zaino e sono uscito, scoprendo che sulla scaletta tirava un vento freddo. E pensare che quella stessa mattina sia la mia ragazza che mia madre si erano lamentate del forte caldo che da due giorni stava battendo la Calabria! Rifletto sul Cambiamento Climatico, su Greta (a proposito, che fine ha fatto?) e sul fatto che all’andata l’atterraggio su Treviso stava per saltare a causa di una brutta e non prevista grandinata, di fronte alla quale il capitano ha a lungo tentennato valutando l’ipotesi di dirottarci a Venezia, salvo poi ripensarci quando, una decina di giri in aria dopo, così com’era venuto, quel terribile maltempo se n’era andato riportando il sole e il caldo.
«Dove cavolo sei?!». Intanto la mia fidanzata rispondeva e il suo tono lasciava presagire una certa irritazione: 40 minuti di attesa erano tanti, ok, ma non così tanti da giustificare quell’ansietta. «Calma, tesoro, sono appena sceso. Abbiamo fatto un po’ di ritardo e…». «Un po’?! Dovevate atterrare alle 13!». «Eh. Comunque ci siamo, aspetta che esco». Ho attraversato velocemente il brevissimo tratto di pista che collegava la scaletta dell’aereo al terminal e salito qualche gradino, fino a un corridoio che, girati un paio di angoli, mi ha portato davanti a un cartello. «Sono all’altezza del Gate 15», ho annunciato al telefono. «Gate 15? Ma che stai dicendo?! Lamezia ha 6 gate, forse arriva a 7…». «Eh? Aspetta, mi sa che sono uscito dalla parte sbagliata». A quel punto ho visto una freccia: «Gate 42» e un velo ha cominciato a scostarsi dalla mia mente.
Ok, forse 15 sì, ma 42 Gate a Lamezia non ci sono di sicuro.
In quel momento qualcosa è successo nel mio cervello. Si è abbassata una leva, forse, è scattato un interruttore, boh, e tutti i sensi però si sono amplificati e hanno cominciato a vedere e sentire veramente tutto ciò che mi circondava: gente che parlava in lingue straniere, cartelloni pubblicitari in lingua inglese e… cos’era, spagnolo? E, girato l’ultimo angolo, uno spazio così grande che forse solo l’aeroporto di Tokyo poteva avermi fatto un effetto più vertiginoso. Ho messo in attesa la fidanzata, ho aperto le impostazioni e attivato il roaming dati – avrei pagato qualche gettone, forse, ma a quel punto… – quindi ho avviato l’app di Google Maps e mi sono geolocalizzato.
Il pallino blu che segnava la mia posizione ha cominciato ad aggiornarsi e a scorrere sulla mappa, da Treviso su, su, attraverso l’Italia, il Mediterraneo, la Francia, la Spagna e fermandosi a Porto… in Portogallo.
«Tesoro, non ti spaventare, ma c’è stato un problema». «Che problema? Ti hanno perso la valigia?». «Non proprio. Mi sono perso io. Sono in Portogallo». «Dai, basta scherzi, muoviti che si muore di caldo e ho una fame da lupi. Stai uscendo?». «Perdonami, torna a casa, di’ a tutti che vi ho voluto bene e se non ci vediamo passa anche tu un felice Natale». Ho interrotto la chiamata (chissà se costano ancora tanto le interurbane?), le ho mandato la posizione in tempo reale su WhatsApp (nel caso in cui avesse persistito nel non credermi), e sono partito tutto spedito in direzione di un punto informazioni. Sperando di trovare qualcuno che parlasse inglese, ma preparandomi per il peggio. Comunque, il mio corpo era pieno di adrenalina, e anche se ero ancora sotto choc, ho deciso che non era il caso di farsi prendere dal panico. Non ancora, almeno.
(Continua: leggi la seconda puntata).
*La Locandina in copertina è un fotomontaggio di Vincenzo Condò.