giornalismo,  INCHIESTA SUL LAVORO

1 – Viaggio tra giovani e mondo del lavoro.

L’ASSENZA di lavoro e di occupazione è disperazione, annientamento della dignità, fonte di insicurezza sociale. Più grave l’impotenza di chi invece un lavoro riesce a trovarlo dopo anni di ricerche e finisce nelle grinfie di un sistema caratterizzato da sfruttamento continuo e aggravato che offende e rende quasi schiavi. E non c’è possibilità, di far rispettare con- tratti e leggi, perché si rischia di perdere anche quel poco che si è riuscito a trova- re. Eccoci dunque nella terra dei senza diritti e nell’era de- gli esercenti o di imprenditori spregiudicati. Cominciamo una nostra inchiesta sul “quasi lavoro nella Piana” e sui meccanismi contorti che vengono messi in atto con la speranza che Ispettorato del Lavoro, Procura della Repubblica, Guardi di Finanza affondino i colpi per ripristinare diritti negati e mettere al bando coloro che sfruttano persino il respiro degli uomini.

Michele Albanese

 

Il mondo del lavoro è cambiato in Italia, in Europa e nel mondo, influenzato dalla tecnologia, dalla politica e, soprattutto, dalle crisi socioeconomiche del terzo millennio. Il tasso di disoccupazione è altissimo su tutto il pianeta, ma, soprattutto, in quei Paesi, come il nostro, che alle criticità globali sommano anche una serie di debolezze strutturali storiche e di difficile risoluzione. Il discorso peggiora ulteriormente quando spostiamo lo sguardo al Sud e alla Calabria, la quale, per esempio, nel 2018 ha registrato statistiche quanto mai allarmanti. Solo per citare alcuni dei dati raccolti dall’Eures l’anno scorso, la quota di calabresi tra i 15 e i 64 anni che non lavorano, non studiano e non seguono un percorso di formazione per il lavoro, è risultata essere pari al 46,9 per cento (è del 34,3% in tutta l’Italia).

Daniele vive nella Piana di Gioia Tauro, ha 35 anni e non lavora da 4. Per il centro dell’impiego è uno degli oltre 160 mila disoccupati della Calabria, ma, dopo averci chiacchierato per un po’, capiamo che in realtà è uno degli oltre 900 mila inattivi censiti dall’ISTAT nel 2018, quelle persone, giovani e meno giovani, che hanno smesso persino di cercare lavoro. Daniele è un “Rassegnato”, come lui stesso si definisce, anche se conosce tutte le altre etichette che, nel corso del tempo, politici e giornalisti gli hanno affibbiato: da “bamboccione” a “parassita” a “pigro”, solo perché, grazie al cielo, ha ancora una famiglia che lo sostiene nonostante la situazione precaria. Daniele, tuttavia, ha ben chiara la sua situazione e sa di non essere nulla di tutto questo. “Ho lavorato per quasi 7 anni per una catena di supermercati discount”, ci racconta, “sballottato tra un punto vendita e l’altro, svolgendo lavori più o meno pesanti per tredici, quattordici ore al giorno. La paga? In busta paga risultavano, ogni mese, circa mille euro”. Che comunque sono molto pochi, per una giornata lavorativa così lunga. “Non avevo mica un contratto full-time”, ci tiene a specificare, “Tutti e quattro i contratti che mi sono stati fatti nel corso di questo rapporto lavorativo erano dei part-time. Il primo di tre mesi, il secondo e il terzo di sei mesi. Poi mi hanno fatto fermare per un po’ e quando mi hanno richiamato mi hanno assunto in una nuova posizione. Con questo giochetto ho fatto il banconista, il cassiere, il magazziniere e l’aiuto macellaio”. Ma a che pro? “Credo che lo scopo fosse continuare con il contratto di prova ed evitare il più possibile quello a tempo indeterminato, che dopo un tot di rinnovi, per quanto ne so, dovrebbe essere obbligatorio”. Daniele non ha molto chiare le leggi che regolamentano il lavoro in Italia e anche quando parla di contratti e buste paga ammette di saperne molto poco. “Quando il lavoro scarseggia e l’età avanza, tendi ad accettare quello che ti danno. Alcuni miei colleghi, assunti con un contratto migliore del mio, restituivano metà della paga versata loro, ogni mese, sul conto in banca. Ricevevano il bonifico, ritiravano la metà dei soldi da uno sportello bancomat e la consegnavano in contanti al ragioniere dell’azienda”. Daniele sa che quello era un reato e di tutt’altro che lieve entità, ma quando glielo ricordiamo alza le spalle: “Non è il peggio che ho visto”. Ci racconta dunque dei turni estenuanti, delle finte lettere di richiamo arrivate periodicamente a tutti i dipendenti – per avere delle pezze d’appoggio in caso di licenziamento immotivato – e delle moltissime ore di straordinario divenute sempre più ordinarie e sempre meno retribuite. “Personalmente, avrei dovuto fare sei ore al giorno, invece ne facevo dieci e prendevo addirittura una paga decurtata di malattie, tredicesime e persino degli 80 euro di renzi, che si metteva in tasca il datore di lavoro”. Ma ha continuato a lavorare per lo stesso datore di lavoro per quasi sette anni, come mai? “Ripeto, da qualche parte di deve pure lavorare”, Daniele cita Bukowski, ma forse non se ne rende nemmeno conto. “E se mi richiamassero, ci tornerei anche oggi”. Come mai non lavora più lì? “Quando ho compiuto trentun anni, dopo la scadenza del sesto o settimo contratto di prova, mi hanno fermato e non mi hanno più richiamato”. Le agevolazioni fiscali si fermano a quell’età, sembra questa l’ovvia motivazione. Le aziende come quella che dava lavoro a Daniele cercano sempre carne fresca, per spremerla fino all’osso e sfruttare tutti i dispositivi fiscali agevolati previsti per l’inserimento lavorativo dei più giovani. Ma nemmeno Daniele riesce a dare tutte le colpe ai suoi datori di lavoro: “In fondo, un lavoratore costa quasi il doppio, alle aziende. Sai quanto devono versare per ognuno di noi all’INPS?”. Lo sappiamo. Sempre secondo l’ISTAT, le tasse e i contributi previdenziali continuano ad alleggerire in maniera eccessiva i salari e gli stipendi. Dati alla mano, un operaio con uno stipendio mensile netto di poco superiore ai 1.350 euro, costa al suo titolare un po’ meno del doppio: 2.357 euro. Questo importo si ottiene sommando la retribuzione lorda (1.791 euro) al prelievo contributivo a carico dell’imprenditore (566 euro). Il cuneo fiscale, dunque, calcolato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta, equivale a 979 euro e incide sul costo del lavoro per il 41,5 per cento.

La storia di Daniele, tuttavia, non è la sola a far storcere il naso. Michela ha trentasette anni e, anche lei, un passato di commessa nei supermercati pianigiani. Come Daniele, ha sottoscritto innumerevoli contratti, tutti a tempo determinato, fino a una certa età, ma la sua specialità sono i tirocini. “Ho fatto una decina di tirocini, nella mia non troppo giovane vita, e tutti per mansioni diverse. Alcuni, due o tre, nella stessa azienda, altri cambiando lavoro e città, per quattro misere lire spese poi di benzina, consumata per andare e venire dal lavoro”. Il tirocinio formativo è un modo per entrare in contatto con il mondo del lavoro. I tirocini formativi e di orientamento (art. 18 Legge 196/97) sono finalizzati a realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e ad agevolare le scelte scolastiche e professionali dei giovani, attraverso il contatto diretto con il mondo del lavoro. Inoltre, sono pensati per permettere l’integrazione delle competenze di base, tecnico-professionali, trasversali già possedute. Durante il periodo di tirocinio si può entrare in azienda ed essere introdotti alla conoscenza dei processi produttivi e dell’ambiente di lavoro. Per Michela, e tanti altri giovani come lei, il tirocinio è invece una esperienza lavorativa a tutti gli effetti, solo mal pagata. “Non per forza”, ci tiene a precisare, “L’ultimo stage che ho fatto mi è stato pagato molto bene, prendevo più di 900 euro al mese, netti, e facevo solo otto ore al giorno. Ero commessa in un negozio di fiori”. Si è tramutato in una occupazione fissa o a tempo indeterminato? “No, me l’hanno rinnovato una volta, per un totale di dodici mesi, ma successivamente hanno preso un’altra tirocinante, suppongo per una figura professionale diversa”. Sui social, proprio in questi giorni, è tornata in auge una vecchia battuta: ‘L’Italia è una repubblica fondata sul tirocinio’.

Abbiamo fatto agli intervistati un’ultima domanda: nelle aziende con cui avete avuto a che fare lavorano, in media, circa ottanta, cento dipendenti, probabilmente tutti sottopagati e sfruttati. Non avete mai pensato di scioperare? Basterebbero due ore di sciopero per far pesare le vostre richieste di un trattamento migliore. “Gli scioperi funzionano solo nei film”, ci dice Daniele, amareggiato. “Una volta l’ho proposto”, rivela Michela, “l’ho scritto nel gruppo Whatsapp che condividevo con i miei colleghi. Non ha risposto nessuno, nemmeno con una emoticon, e quando mi è scaduto il contratto, beh, non mi è stato più rinnovato”. “La gente ha sempre più bisogno di lavoro”, spiega Daniele, “per ognuno di noi che si lamenta, venendo licenziato, o si dimette per non voler sottostare a certe condizioni, ci sono sempre altri cento dietro la porta che aspettano di poter prendere questi miseri seicento euro. Che non sono molti, anzi, ma sono comunque meglio di niente”. “Un giorno sono venuti gli ispettori del lavoro”, chiosa Michela, con un sorriso, “Pensavamo notassero cose evidenti come, per esempio, il fatto che la cassiera part-time firmava con il suo codice quasi dodici ore di scontrini al giorno. Ma quando abbiamo visto che non lo facevano, uno di noi, il meno paziente di tutti, gli ha anche rivelato parte degli imbrogli sulle buste paga. Beh, io sono andata via due anni dopo, senza assistere a nessun provvedimento nei confronti dell’azienda”. Cosa intende dire? “Niente, che anche io, come Daniele, ormai mi sono rassegnata”.

Salvatore Tigani

(Apparso sul Quotidiano del Sud il 7 luglio 2019)
(1-continua)

Salvatore “Saso” Tigani è un giornalista, scrittore e autore umoristico. È diventato famoso con Come sopravvivere ai Calabresi, ma ha scritto anche cose belle. Alcuni suoi racconti hanno vinto importanti premi letterari e compaiono in raccolte e antologie nazionali. Però è astemio.