DENTRO LO SCHERMO – PIÙ VERO DEL VERO, COMUNQUE FALSO: IL REALISMO ESTREMO
DAL MOSTRO DELLA LAGUNA AL LUCERTOLONE DI CLOVERFIELD: È SEMPRE PIÙ DIFFICILE DARLA A BERE ALLO SPETTATORE. Nelle prime scene de Il mostro della laguna nera, la creatura fa la sua prima apparizione nuotando in maniera alquanto goffa per essere un’entità marina. I fondali sono palesemente di cartapesta, così come il pugnale brandito da Lucas nello scontro con Mark è visibilmente di plastica. E sul viso del mostro non ci sono segni di vita (né di sofisticati impianti robotici per dare espressione al volto, quali quelli utilizzati nei moderni Jurassic Park, Alien o Gremlins)[1].
Eppure, il film ha saputo a suo tempo assicurare “spavento e horror in giuste dosi”[2].
Oggi, tuttavia, il film fa sorridere e risulta spesso noioso, banale ai più.
Per suscitare “spavento e orrore” oggigiorno il cinema deve sempre più fare ricorso alla tecnologia e all’ingegno delle industrie di effetti speciali, onde rendere più fotorealistica e quindi più verosimile possibile la rappresentazione. Il viaggio degli effetti speciali nel cinema comincia con Maries-Georges-Jean Méliès, un ex prestigiatore che accidentalmente scoprì il trucco della sostituzione e per primo adoperò dissolvenze ed esposizioni multiple (oltre ad essere stato uno dei pionieri del colore, che dipingeva a mano sulla pellicola) raggiungendo l’apice del successo con l’Industrial Light & Magic[3] di George Lucas (che ha reso “credibile” un’epopea fantasy a metà tra fantascienza e mitologia); tanto che nei film di oggi è sempre più difficile (a volte praticamente impossibile) distinguere il falso dal vero: i capelli del Principe Azzurro, nella trilogia di Shrek, sono un magistrale esempio dei progressi in questo campo. L’innovazione tecnologica si è spinta a tal punto che lo spettatore contemporaneo, sovraccarico di effetti speciali e mostri che sembrano veri, ha cominciato a “subire”, in un primo tempo, la prossimità del mezzo cinematografico, e successivamente ad abbisognarne sempre di più. Complice anche il progresso nel campo dei videogame, dove l’interattività sfiora la realtà virtuale. Si è sviluppata, infatti, negli ultimi tempi una nuova tendenza: la ricerca di una sorta di “realismo estremo”, un tentativo di portare il “patto con lo spettatore” al limite massimo, oltre la famosa frase iniziale “questo film ricostruisce una storia realmente accaduta”. Per il nuovo spettatore, sempre più incredulo[4], la frase è diventata: “Questa ‘è’ una storia vera, documentata in diretta: tutto ciò che vedrete è accaduto realmente”.
Le videocamere digitali ultraleggere hanno fatto il “grosso” del lavoro. Il marketing ha pensato al resto.
SOSPENSIONE DEL’INCREDULITÀ. Il primo a parlarne in questi termini fu Samuel Taylor Coleridge[5], ma del concetto si ha coscienza sin dai tempi di Shakespeare[6]: entrambi riconoscevano il tacito accordo tra drammaturgo e spettatore, per il quale quest’ultimo si impegnava ad “accettare” la finzione della messa in scena permettendo all’autore di portarlo in un mondo altro, durante le ore dello spettacolo. Se al teatro la convenzione della cosiddetta “quarta parete”, come limite immaginario tra realtà e finzione,continua ad essere accettata con la stessa facilità da Aristotele ai giorni nostri, nel campo cinematografico lo spettatore è stato, con il progredire della tecnica, via via sempre più “viziato”, fino a diventare incredibilmente restio e difficile da convincere a stringere il patto. In assenza del quale, è opinione comune[7], la fruizione del film sarebbe incompleta, imperfetta, o addirittura impossibile.
Il modellino dell’Empire State Building del primo King Kong, se fosse riutilizzato in un film dei nostri giorni, provocherebbe il conseguente ed immediato rigetto di ogni virtuosismo registico, trovata narrativa o prova attoriale. Il pubblico non è più disposto a fare il lavoro sporco dello spettatore di cinquant’anni fa e delega lo sforzo immaginativo ai creatori di sogni dell’industria di effetti speciali. È così possibile, oggi, credere per centoventi minuti a storie di alieni che si massacrano nello spazio o alla maledizione di una prima luna caraibica purché non si vedano i fili che muovono le marionette (che si tratti di una texture poco curata sul viso di un extraterrestre creato al computer o di un microfono penzolante sulla testa dei pirati della Perla Nera nel film con Johnny Deep).
Il patto, naturalmnete, non contempla soltanto mostri e astronavi, ma anche la psicologia dei personaggi, le premesse della storia o lo stesso mezzo attraverso cui le vicende vengono narrate. Così, se si accetta che un gruppo di ragazzi abbia incontrato una strega nel bosco e abbia documentato le vicende con una macchina da presa amatoriale, allora quella strega potrà sfoggiare tutti i poteri che lo sceneggiatore avrà cuore di darle senza che lo spettatore dica “questo è troppo”. Nel momento in cui però l’attore mostrasse un attimo di autocoscienza, tradendo il fatto di essere un attore e di esserne consapevole, questo romperebbe il patto, infrangendo il quarto muro cinematografico.
MOCKUMENTARY VERSUS DOGMA. Il cinema ha visto negli ultimi tempi due tendenze opposte e nel contempo apparentate dalla stessa origine: la risposta al bisogno di verosimiglianza estrema.
Nel falso-documentario (o Mockumentary), l’argomento trattato dal regista attraverso gli strumenti del documentario raggiunge uno spettatore più predisposto a crederci: si tratta della dissimulazione di una bugia grazie a un mezzo solitamente al servizio della verità.
Tra gli esempi più celebri, Zelig di Woody Allen fa proprie le peculiarità del documentario storico raccontando una storia indubbiamente falsa ma altrettanto efficacemente capace di plausibilità.
Ciò che un documentario tradizionale suscita nello spettatore è, infatti, il dubbio che tutto il narrato possa essere stato inventato (una recente trasmissione Usa[8] ha affrontato il primo sbarco sulla luna alla luce della teoria del complotto formulata dall’americano Bill Kaysing nel suo libro We never went to the moon, del 1976, analizzando immagini e trasmissioni dell’epoca allo scopo di reperire indizi su fantomatici effetti speciali utilizzati per rendere realistico l’evento), un falso documentario invece inverte questo processo trasformando il dubbio dello spettatore in “potrebbe essere vero?” (per rimanere nell’esempio del primo allunaggio, il mockumentary Operazione Luna – Kubrick, Nixon e l’uomo sulla Luna[9], del 2002, ricostruisce il complotto operando per renderlo plausibile e chiama in causa l’ipotetico coinvolgimento del presidente Nixon e del regista Kubrick).
Film come Accordi & Disaccordi (ancora di Allen), Forgotten Silver di Peter Jackson, o il più recente Death of a President del canadese Gabriel Range, danno una idea di quanto possa essere malleabile la forma documentario al servizio dell’immaginario e sottolineano la vastità di possibilità artistiche messe a disposizione del regista: dalla confezione hollywoodiana del film con Sean Penn fino alla manipolazione sopraffina ed estremamente televisiva di materiali d’archivio, eventi dal vivo e interviste a persone reali montati con materiale di fiction della “morte” del presidente Bush. Un orizzonte degli eventi che ad ogni film sembra sempre più difficile da superare ma che, come per i record olimpici, è ancora ben lontano dalla saturazione.
La ragione del successo di questa strategia di suggestione potrebbe essere attribuita alla grande importanza che i mass media hanno nella costruzione della realtà quotidiana; la realtà quotidiana è in parte percepita e interpretata attraverso il “mediatore” televisivo. La grottesca ricostruzione di una strage in Tg, talk show e salotti televisivi vari è per lo spettatore medio l’unico ponte con la realtà. Si è portati a fidarsi delle immagini inviate dal cameraman di stanza in Iraq, delle parole del giornalista che ha assistito all’ennesimo sciopero sindacale o al resoconto puntuale di una sparatoria. La TV dice il vero: certifichiamo la verità di quanto stiamo dicendo con frasi come “L’ho visto alla televisione” al bar con gli amici, o al lavoro con i colleghi (fino a poco tempo fa lo stesso ruolo era ricoperto dalla radio, mezzo la cui autorevolezza non fu messa in dubbio nemmeno dal milione di persone circa che si convinse di essere minacciato da una razza aliena durante il radiodramma “La guerra dei mondi” di Orson Wells).
Dogma. Nella direzione opposta si spinse, invece, Lars Von Trier, quando nel 1995, con il suo “Voto di castità”, mise al bando ogni artificio cinematografico, inaugurando un decennio all’insegna della purificazione (dalla “cancrena” degli effetti speciali ma anche della postproduzione in generale, nonché dell’insostenibilità finanziaria legata alla produzione di un film). Un decalogo/manifesto firmato da più registi proibì l’uso di scenografie, luci, colonna sonora, e quant’altro esulasse da camera a mano e capacità individuali. Il Dogma95 ha lavorato (non senza limiti e compromessi) per una semplificazione, con l’obiettivo ultimo di mettere a nudo l’apparato spettacolare. Influenzati palesemente da Brecht e dal suo lavoro sullo straniamento, Von Trier e soci misero in chiaro che “lo spettacolo è uno spettacolo”, affermazione apparentemente ovvia ma, sicuramente – in virtù del patto –, inconsciamente evitata.
Viene bandito, dunque, l’inganno dell’immedesimazione, che nel mockumentary invece viene applicato con sempre più efficacia. Come nell’Olimpya di Manet, in cui la protagonista guarda negli occhi dello spettatore rompendo l’idea che tra il mondo raffigurato e quello reale ci sia un abisso immaginifico[10], i film del Dogma rompono la quarta parete e fanno vedere microfoni che penzolano dal soffitto, ombre di tecnici e sbavature altre per dire che: “Questo è un quadro! Questo è un film! Questa non è la realtà!”[11].
Industria e arte. Ci sono due audience diverse, una che cerca l’intrattenimento, l’altra l’autorialità (e sicuramente ci sono persone più disposte a farsi ingannare, altre meno), ma soprattutto ci sono due tendenze autoriali: una che vuole intrattenere ed una che invece vuole far pensare, svegliare dal “sonno della storia”[12], dall’illusione della realtà, facendo anche capire allo spettatore come funziona la macchina spettatoriale. In realtà però le due tendenze, nella logica de “la verità sta sempre nel mezzo”, si mescolano spesso e volentieri: industria e arte non riescono a fare a meno l’una dell’altra, e gli stessi autori del Dogma hanno spesso infranto nei propri lavori completamente o parzialmente uno o più “comandamenti” del decalogo.
AMATORIALE, SOGGETTIVA E NUOVE TELECAMERE DIGITALI LEGGERE. La verità è riconosciuta come tale in quanto annunciata dai media[13]. Nel caso del mezzo televisivo, giunge nelle case filtrata da una serie di codici e artifici tecnici ormai totalmente assimilati dal pubblico, che associa invece la sincerità dell’esposizione alla (per esempio) camera a mano, alle sbavature ed alla visione “a scatti” e in bianco e nero dei video di sorveglianza (o anche alle cosiddette immagini rubate dei reporter che filmano la notizia in diretta e si presentano come testimoni affidabili di quanto raccontato). Tali codici assicurano in qualche modo una realtà più affidabile rispetto a ricostruzioni di qualità migliore, la cui verità oggettiva è spesso mascherata da montaggio, colonne sonore o altri accorgimenti.
Ecco perché negli ultimi tempi, con il miglioramento della tecnica e la spettacolarizzazione della notizia, viene riconosciuta una maggiore credibilità a filmati user genered come quelli rintracciabili su youtube: l’uomo comune, armato di una leggerissima videocamera DV, diventa il reporter più affidabile del terzo millennio. Le immagini amatoriali, immortalate anche con un semplice videofonino, vengono catturate in tempo reale, condivise in rete con il resto del mondo (annullando così il ruolo dell’inviato, poiché in ogni luogo e in ogni momento c’è un potenziale cronista pronto a catturare la notizia) e spesso e volentieri rimediate e trasmesse dalle reti televisive nazionali. I servizi giornalistici, infatti, fanno sempre più ricorso ai contributi web per convalidare le tesi sostenute, incorrendo spesso in clamorose bufale (come nel caso del finto episodio di molestie ad una professoressa ripescato su youtube, mandato in onda da Studio Aperto e poi smascherato dagli stessi autori del falso)[14].
Dunque la verità è sempre di più associata alle riprese amatoriali.
The Blair Witch Project è il primo mockumentary a sfruttare questa sorta di ossessione per il video (ossessione all’epoca più che altro giovanile ma oggigiorno universale), raccontando una storia di genere che spinge al massimo sul pedale dell’immedesimazione, tanto da suscitare, con la narrazione vissuta interamente attraverso l’obbiettivo di una cinepresa e di una videocamera, stati di angoscia raramente visti prima. Operazione orchestrata sin dalle prime fasi di lancio, attraverso astute trovate quali la costruzione di siti internet in cui si annunciava la scomparsa dei tre ragazzi protagonisti del film (attori e personaggi hanno lo stesso nome) o la finta trasmissione televisiva che ha preceduto la prima cinematografica, in cui veniva reso noto il ritrovamento di alcuni nastri nella foresta del film. Il mistero della strega di Blair è il primo esempio di come il cinema si sia impossessato dei codici della verità per emularla e capovolgere l’antica certezza che la vita superasse di gran lunga la finzione. Quando, infatti, il finto diventa più vero del vero, lo spettatore tende a vacillare, perso in un originale senso di straniamento che rende l’esperienza fruitiva altamente sconcertante.
Il recente film spagnolo REC ha diffuso insieme al trailer tradizionale un breve filmato in cui venivano ripresi agli infrarossi i primi spettatori[15] (i cosiddetti beta-tester) della pellicola horror rivelazione del 2008: l’intenzione era di rendere ancora più tangibile (e più reale) la paura suscitata dal film. La gente in sala salta sulle sedie come per altri film horror più classici con la differenza, tuttavia, che per nessun film precedente c’è mai stata una telecamera a filmarli dal vivo e di nascosto. Doppio salto, quindi, nell’orrore in cui incappano la finta reporter ed il finto cameramen durante gli 85 minuti del finto servizio televisivo.
Il caso di Cloverfiel, che con Rec condivide la stagione cinematografica oltre che la scelta stilistica, è maggiormente curioso: la storia del gigantesco mostro simil-Godzilla che distrugge Manhattan viene raccontata attraverso l’obbiettivo di una handycam ma con l’aiuto, questa volta, di effetti speciali miliardari (sia Il mistero della strega di Blair che Rec infatti sono film low budget, oltre che semi-indipendenti): un gruppo di studenti, durante una festa, sta registrando dei messaggi di auguri per un amico che deve partire per il Giappone quando l’irrazionale entra prepotentemente nelle loro vite e nella familiarità/autenticità di un video amatoriale sotto forma di scosse telluriche, blackout, petroliere che affondano e mostruosi ruggiti.
Le scene sono altamente verosimili e l’applicazione degli effetti speciali alle immagini a volte sfocate, traballanti e spesso buie, è eccellente. L’unica pecca, con molta probabilità, è la fastidiosa artificialità del “montaggio automatico” (operato da una videocamera digitale dotata di un sorprendente estro registico), che intervalla alle scene d’azione, alcuni “involontari” flashback sulla vita sentimentale del protagonista. Oltre che, ovviamente, per la necessità tecnica di riprendere sempre ad altezza d’uomo (anche se in una bella ma unica sequenza il cameraman improvvisato si riprende i piedi per una lunga fuga dalla creatura).
Redacted. L’ultimo film, censurato di nome e di fatto (nessuno ha accettato di distribuirlo nelle sale per i temi trattati alquanto scottanti oltreché attuali), di Brian de Palma potrebbe essere considerato il mockumentary perfetto: la storia della famiglia civile stuprata e uccisa brutalmente (fatti ispirati a una vicenda reale) viene narrata attraverso due finti documentari, uno amatoriale, girato con una videocamera digitale leggera da un militare, ed uno professionale, girato da una coppia di reporter di guerra per una fittizia televisione nazionale. Il genio di De Palma è perennemente in agguato, sia nelle inquadrature sporcate ad arte sia per lo scandirsi degli eventi. Questo è il pregio di un prodotto di lusso che ha ricevuto riconoscimenti e critiche favorevoli un po’ da tutto il mondo. Tuttavia, lo stesso pregio tende a favorire una catalogazione del film tra le fila della sponda opposta a quella dei finti documentari: la telecamera del militare accesa sempre nei momenti clou (specialmente in quella in cui lo stesso soldato viene rapito dai miliziani) della trama, le telecamere di sorveglianza che (sic!) registrano anche l’audio dei soldati autori del misfatto i quali, furbamente, discutono a più riprese dell’accaduto proprio sotto alla videocamera a circuito chiuso. E persino i personaggi, ridotti in alcuni casi a semplici macchiette, stereotipi del cattivo, del buono, del pervertito e del “palla di lardo” assassino alla Kubrick. Tutto sembra urlare, un po’ come nel Dogma: “Ehi, questo è un film, e recitato peraltro malissimo!”. Tuttavia, prima che si urli all’eresia, è chiaro l’intento teatrale del regista: una messa in scena limpida, quasi asettica del dramma dei drammi, consumato sotto gli occhi di videofonini e videocamere digitali eppure taciuto. Una rappresentazione dell’irrappresentabile, con la fredda emotività di una compagnia teatrale alle prese con il più realistico dei soggetti: l’inferno della guerra tra gli angeli della democrazia.
È probabile che a lasciare senza fiato sia proprio questa scelta di narrare le vicende con l’estro narrativo di un rapporto militare, una sorta di occhio divino che con l’apatia di un essere superiore osserva e rimane immobile. Immobile, più o meno, come la maggior parte degli esseri umani di fronte ai crimini atroci consumati da soldati spietati e impuniti.
Guardando Redacted, viene da chiedersi, parafrasando Chuck Palahniuk, se non sia proprio così che ci veda Dio: come attori che recitano male la propria parte sul palcoscenico della vita.
Il paradosso. Film di questo tipo riescono (alcuni di più, alcuni di meno) ad accentuare – paradossalmente, visto l’abuso di realismo – la perdita del contatto con la concretezza della vita reale. Nel caso di The Blair Witch Project, la scena del testamento video di Heater illuminata da una torcia da campeggio è esemplare: non a caso è tra le scene più emulate, parodiate e citate della storia del cinema in generale.
L’UOMO COMUNE. Ad accrescere il successo del realismo estremo nel cinema è la parallela evoluzione del genere televisivo dei reality. Negli ultimi dieci anni, ogni rete televisiva del mondo ha lanciato il suo personale Grande Fratello. Voyeurismo e bisogno di interattività si sono così mescolati tra loro dando vita ad una vera e propria rivoluzione nel campo dell’intrattenimento televisivo: l’uomo comune viene seguito e “documentato” come un qualsiasi altro animale della Terra, osservato mentre tira fuori i propri istinti, le proprie peculiarità di specie e le proprie strategie personali nelle varie situazioni in cui l’Occhio (delle telecamere) lo immerge. Visto il successo del reality, il cinema ha pensato bene di “rimediare” tecniche e stili producendo alcuni capolavori autoriali[16] o applicandoli al genere[17]. Un caso particolare è rappresentato da Surf’s Up, in cui allo strabiliante utilizzo della Computer Grafica, è affiancata l’originale trovata di seguire le avventure di una banda di pinguini con il pallino del surf, come se si trattasse di un reality show à la Mtv, con tanto di camere (virtuali) a spalla, clip strappalacrime e interviste ai partecipanti (e provini, varie troupe sparse per l’isola, contributi dei familiari, premio finale, eccetera).
Ad ogni modo, forzando un’interpretazione scientifica del fenomeno (come fanno sin dalla prima edizione i detrattori del Grande Fratello), l’osservazione altera la naturalezza e quindi la “realtà” delle interazioni, con il conseguente paradosso che ciò che viene spacciato per reality[18] potrebbe essere tutt’altro che realistico.
Seguire l’uomo comune, tuttavia, è stato oggetto della profonda analisi dei molti studiosi, critici e pensatori che hanno avuto qualcosa da dire sulla interrelazione da sempre esistente tra uomini e obiettivi. Già Godard si interrogava sulle possibilità di tenere un diario visivo della propria giornata (si racconta che quando era iscritto al partito comunista avesse comprato centinaia di piccole videocamere per gli operai, affinché le utilizzassero come se fossero carta e penna), una sorta di prosecuzione delle attività vitali. E sicuramente Zavattini la pensava allo stesso modo, anticipando di decenni l’uso moderno delle videocamere e dei videofonini, seppure per lui fosse implicito un uso analitico e sociale del mezzo e certamente non commerciale: egli aveva pronosticato, azzeccando in pieno, la possibilità di seguire – appunto – l’uomo comune durante la sua giornata, con la magnifica opportunità di espandere la conoscenza della realtà dei fatti a livello macro e micro della vita di un essere umano. Entrambi i pensatori citati e molti altri hanno pensato ed auspicato una “democratizzazione del mezzo”, che portasse non solo a nuove conoscenze scientifiche ma anche a nuovi orizzonti artistici. Spulciando, tuttavia, il panorama amatoriale contemporaneo, si può solo rilevare che questa democratizzazione è nata bene per svilupparsi nel peggiore dei modi, riducendosi ad una mera moltiplicazione di video familiari, idee amatoriali ed episodi di decadenza documentati in diretta o messi in scena proprio per essere filmati e resi pubblici su internet (bullismo, molestie sessuali, pornografia).
L’eccezione dei mockumentary e dei film fin qui trattati, lascia sperare che le idee e le speranze dei pionieri del genere possano essere ancora, in qualche modo, realizzate.
BISOGNI E POSSIBILITÀ. Come per un serpente che si morde la coda, è difficile capire se sono i gusti del pubblico ad avere innescato questa tendenza al realismo o se si tratta di una naturale conseguenza del progresso tecnico. Probabilmente, la tendenza è di legare al progredire della tecnica le esigenze commerciali e spettacolari, insieme al sempre crescente bisogno di (abitudine alla) interattività e prossimità dello spettatore, uno “spett-attore” sempre più trasversale che si nutre di reality e videogiochi in prima persona, che esige sempre meno interferenze tra il pensiero e l’azione, sempre più autonomia e tuttavia sempre più passività; uno spettatore capace di impugnare una pistola ed uccidere “il nemico” nei videogiochi sentendosi al centro dell’azione e comunque restando comodamente seduto sul divano; e allo stesso modo assetato di realismo perché sempre meno capace di sognare ed immaginare. Incapace di stupirsi, se non con gli stessi artifici di cui abbisogna, ma della cui esistenza vuole essere sempre meno conscio. Immagini vissute più che guardate, ma tra le quattro confortevoli mura di casa. Terrorizzato da gigantesche lucertole radioattive dalle quali, però, lo schermo, per quanto trasparente e “immediato”, lo tiene lontano.
È il sonno della fantasia, più che della ragione, quello in cui ci si addormenta per risvegliarsi sempre nello stesso posto: la realtà. Il sonno dell’incoscienza tutelata solo dai limiti temporali del “patto”: le due ore di film. Ed il sonno, infine, della storia: schemi narrativi triti e ritriti al servizio della tecnica, dello stupore pirotecnico degli effetti speciali o di quello soft della telecamera digitale che imita la cronaca.
Ottimi prodotti commerciali, a volte anche ottime idee. Raramente capolavori.
L’unica nota di merito, sicuramente, è rappresentata dall’estenuante corsa all’oro dei produttori: il marketing, territorio ancora parzialmente inesplorato, ove si consuma la battaglia più importante della “guerra”. Dai finti ritrovamenti dei video della strega di Blair fino al viral marketing di J.J.Abrahms per Cloverfield, la caccia alla credulità parte dalla rete mesi prima che il film arrivi nelle sale e converge da ogni medium conosciuto e sfruttabile.
Il trucco c’è sempre, però, e si vede.
Non a caso, nello stesso Il mistero della strega di Blair, uno dei due ragazzi, filmando la protagonista (falsa regista del falso documentario) che, nonostante il clima di tensione successivo alla rivelazione dell’entità del bosco, ha continuato a tenere accesa la videocamera per tutto il tempo, dice: “Adesso capisco perché ti piace così tanto questa telecamera […] non è la pura realtà […] è una realtà completamente filtrata, bimba […] puoi far sì che le cose non appaiano come siano realmente”.
Non ci sono logo di reti televisive, non c’è musica di sottofondo, la luce è quella del sole che filtra attraverso le foglie degli alberi. L’intenzione del “vero” regista è quella di rendere tutto “reale”. Eppure, lo stesso attore (finto attore, vero attore) del documentario all’interno del mockumentary ammette che la realtà filtrata dall’obiettivo smette di essere realtà, e diventa altro.
CONCLUSIONI. Dice Hauser[19]: “la nostra società ha appreso il linguaggio cinematografico quasi per gioco, vivendo nella fruizione schermica quella parte di avventure, di valori , di rapporti, di miti che l’esistenza quotidiana le ha negato o le ha concesso in modo parsimonioso, qualitativamente insufficiente e quindi con esiti di frustrazione personale”. Da qui la considerazione di uno spettatore passivo che da secoli si abbandona alla finzione scenica spinto dalla necessità di soddisfare bisogni personali. Tradizione ed avanguardia si sono intrecciati costantemente alla ricerca di quella simbiosi capace di colpire il segno, stimolando nello spettatore la giusta dose di catarsi richiesta dai tempi e dai luoghi delle varie contemporaneità. La mano autrice, attraverso una serie di dinamiche tali da nascondere di volta in volta il disturbo, il dettaglio che sporca il suo sforzo, assecondando l’avanzare dello sviluppo mediatico (e grazie quindi anche all’alfabetizzazione dei codici di interpretazione filmica), ha plasmato e reso differente col prosieguo dei tempi la fruizione di questa funzione psicosociale. “Se un film del passato arriva oggi facilmente allo spettatore medio e scioglie senza fatica le difese della sua disponibilità e della sua integrabilità, l’operazione di lettura che sta al fondo della sua fruizione è pur sempre il risultato di un’acculturazione, spesso inconscia”[20]. È dunque la mutazione del rapporto semiotico lettore-autore, avvenuta di pari passo con la trasformazione dell’universo dei media, a far sì che il mostro della laguna ci faccia ora sorridere. Ma, essendo così esigua la distanza tra realtà e finzione, si arriverà probabilmente ad annullare del tutto la mediazione della nostra disponibilità: ci si illuderà, un giorno, di essere ancora attivi nella sanzione del patto, pure quando il patto sarà così sottile da essere impercettibile.
APPENDICE: A PROPOSITO DELLA PAURA. Nonostante il realismo estremo ed il conseguente accrescersi del potenziale di suspance affidato alla soggettiva ed alle videocamere digitali leggere, a creare sensazioni di terrore puro sono sempre e comunque gli stessi temi: demoni, fantasmi e alieni. Sin da l’Esorcista il cinema horror ha fatto ricorso a tematiche che potessero essere sulla carta al limite del plausibile, e cioè riflessioni o anche solo semplici ricognizioni su paure ataviche o moderne suscitate da elementi di dubbia falsificabilità. Ecco quindi che il diavolo ritorna prepotentemente anche nella spiegazione scientifica del finale di REC. Il demonio come antagonista di Dio e quindi se non si può accertare l’inesistenza di Questo anche Satana ha le sue buone probabilità di essere una entità reale. Già orripilante, il mockumentary spagnolo terrorizza ulteriormente (definitivamente, potremmo dire), avvisando che tutto quanto è stato narrato potrebbe un giorno accadere sul serio. L’esorcismo, quindi, e la grande mitologia della religione, unico campo in cui tutto – davvero tutto – è plausibile.
Sull’altra sponda, gli alieni: anche qui, una di quelle paure che non possono essere debellate completamente. Il terrore che viene dallo spazio. Gli scienziati si spingono fino alla rassicurazione massima che gli strumenti a disposizione permettono loro: è altamente improbabile che gli alieni invadano la Terra. Improbabile, ma non impossibile.
Terza fucina di paure incontestabili è per il cinema la psiche umana, in tutte le sue forme. L’angoscia dei tre ragazzi sperduti nel bosco di Blair, la cui lucidità è messa a dura prova da eventi che potrebbero essere – almeno per i primi tre quarti del film – frutto della loro immaginazione. O il bestiale comportamento dei soldati di stanza in medio oriente descritti nell’ultimo film di Brian de Palma, forse il mockumentary più terrificante tra tutti nonostante sia anche quello con più artifici e invenzioni stilistici.
Come dire, insomma, che per colpire lo spettatore, non c’è fantasia che tenga nel confronto con la realtà: la paura, per quanto istintiva, è la risposta evolutiva a problemi reali, ed è quindi razionale.
I progressi della tecnica e la profondità estrema delle immagini registrate da una piccola, leggerissima handycam, non fanno altro che assottigliare la linea di demarcazione tra l’“al di là” e l’“al di qua” dello schermo, catapultando lo spettatore (pop corn e poltrona reclinabile compresi) direttamente al centro dell’azione. Finta, tuttavia, e perciò innocua.
Un saggio di Salvatore Tigani
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Facoltà di Scienze della Comunicazione
Teoria e Tecniche del Linguaggio Cinematografico
Prof. Roberto Faenza
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www.falsidocumentari.blogspot.com
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http://video.google.it/videoplay?docid=-6459623862615516274&q=operazione+luna
Data ultima consultazione: 20 aprile 2008
NOTE
[1] Gli “errori” di questo tipo hanno col tempo preso il nome di “Bloopers” e sono diventati oggetto di una sorta di caccia al tesoro per gli aficionados, una vera e propria sfida parallela a quella delle industrie di effetti speciali, che invece impegnano danaro ed energia per evitarli. La categoria dei Bloopers contiene i cosiddetti “anacronismi”, quale il fantomatico orologio al polso dei centurioni nei “peplum”.
[2] Morandini Morando, Morandini Laura, Morandini Luisa, Il Morandini 2008. Dizionario dei film, Zanichelli, 2007
[3] Magic: curioso il continuo riferimento alla magia nel campo degli effetti speciali. L’espressione “mago degli effetti speciali” potrebbe esserne un esempio.
[4] “Siamo andati sulla Luna? Macché: con gli effetti speciali ormai possono farci credere tutto!”
[5] «[…] venne accettato, che i miei cimenti dovevano indirizzarsi a persone e personaggi supernaturali, o almeno romantici, ed anche a trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione dell’incredulità momentanea, che costituisce la fede poetica. » (Samuel Taylor Coleridge, Biographia literaria)
[6] « Sarà così la vostra fantasia/a vestire di sfarzo i nostri re,/a menarli dall’uno all’altro luogo,/saltellando sul tempo,/e riducendo a un volger di clessidra/gli eventi occorsi lungo diversi anni; » (William Shakespeare, Enrico V)
[7] Come vedremo in seguito alcuni autori di cinema ma anche di teatro hanno provato a fare a meno della sospensione del dubbio, giocando, potremmo dire, a carte scoperte.
[8] Conspiracy Theory: Did We Land on the Moon?, 15 febbraio 2001, Fox TV. USA.
[9] Opération Lune (The Dark Side of the Moon) Regista: William Karel Durata: 52 minuti ca. Produzione: ARTE France, Point du Jour, 2002 … – http://video.google.it/videoplay?docid=-6459623862615516274&q=operazione+luna
[10] Il quadro non ha una luce propria, è bidimensionale: a differenza della pittura tradizionale, d’ispirazione classica, non bada alla prospettiva o alle altre regole artistiche, ma ha bisogno del contesto e della luce dello spazio in cui è esposta, oltre che dello spettatore per la prima volta attivo. Duchamp e Picasso porteranno all’estremo questa tendenza.
[11] “la querelle del realismo nell’arte procede da questo malinteso: la confusione tra l’estetica e la psicologia tra l’autentico realismo che è bisogno d’esprimere la significazione insieme concreta ed essenziale del mondo e lo pseudo-realismo del trompe-l’oeil e del trompe-spirito”. Andrè Bazin
[12] Salvatore Insana, Riflessioni sul mezzo cinematografico, inedito
[13] O, almeno, da quelli autorevoli.
[14] Studio Aperto, in un servizio di Gigi Sironi del 21 maggio, trasmette il filmato oscurando le facce e lanciandolo come uno scoop: “La prof guarda il panorama con un cannocchiale” “Dell’ultimo video finito su YouTube vi mostriamo solo questa scena, le altre sono troppo esplicite”. Visto il servizio, gli autori della parodia, un gruppo di studenti di Ingegneria di Ancona, segnalano la cosa a Striscia la Notizia. A rivelare la beffa è tuttavia un altro Tg Mediaset, il TG5, che mostra ancora una volta il video spiegando che si trattava solo di una goliardata.
[15] L’immagine in copertina, proiettata nel montaggio sul maxischermo di una sala cinematografica, è un fotogramma del trailer in questione.
[16] The Truman Show e Ed Tv, per esempio.
[17] Come per il notevole Contenders serie 7.
[18] In inglese: realtà.
[19] Bettetini, 1971, in Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, Saggi Marsilio, 2001
[20] ibidem