L’essere umano nasce come un mosaico di percezioni pure e non filtrate, una coscienza fluida che si nutre di immagini, suoni, odori e sensazioni. Nei primi anni di vita, l’essenza originale, libera da separazioni e giudizi, si manifesta come un potenziale sconfinato di connessione con il tutto. Tuttavia, con l’acquisizione del linguaggio e l’interiorizzazione delle norme sociali, si assiste a una trasformazione profonda: l’Io emerge come un costrutto modellato dalla famiglia, dai caregiver, e dalla società. Questo Io, sebbene necessario per navigare nella complessità del mondo, si sovrappone all’essenza originaria, confinandola e reprimendola. Diventa un censore, un filtro che consuma enormi risorse psichiche per mantenere il controllo e aderire alle aspettative sociali, lasciando il bambino interiore intrappolato in un linguaggio simbolico inaccessibile. Questo processo genera una frattura interna che alimenta incomprensioni, sofferenze e un senso di alienazione. Eppure, l’Io non è il nemico. È uno strumento indispensabile, ma deve essere smascherato, liberato dalle maschere e ricondotto al suo scopo originario: interpretare la realtà senza identificarsi con essa. Solo così possiamo riconciliarci con il nostro sé più profondo, integrando le nostre parti interiori e riscoprendo la connessione autentica con il mondo. In questo saggio, esploreremo le implicazioni psicologiche, neurologiche e sociali di questa dinamica, proponendo un percorso di riconciliazione tra l’Io e il bambino interiore per una vita più autentica e consapevole. La Transizione da Essenza a Costrutto Gli studi sullo sviluppo del cervello umano suggeriscono che nei primi anni di vita la nostra mente opera principalmente in stati di coscienza associati alle onde cerebrali theta e delta, tipiche di un cervello altamente plastico e ricettivo. In questa fase, i ricordi si formano come una sinfonia sensoriale: immagini vivide, suoni evocativi, odori penetranti e sensazioni tattili che si imprimono nella nostra essenza in modo non verbale. È un linguaggio primordiale, fluido, che abbraccia il mondo senza separazioni, etichette o giudizi. Quando il linguaggio emerge, intorno ai 4-6 anni, avviene una transizione fondamentale: il cervello inizia a privilegiare la modalità verbale, registrando i ricordi sotto forma di narrazioni. Questo passaggio trasforma il modo in cui comprendiamo e memorizziamo le esperienze, ma al contempo crea una distanza dalla nostra essenza originaria. L’acquisizione del linguaggio coincide con l’interiorizzazione delle norme sociali e la nascita dell’Io, una struttura indispensabile per navigare nella complessità del mondo sociale, ma che spesso agisce come un filtro censore. Questo Io, costruito dalle agenzie educative, dalla famiglia, dai caregiver, dalla cultura e dalla società, utilizza le risorse psichiche del nostro essere originario per modellarsi e prendere forma. In questo processo, l’Io sovrascrive il “bambino originario” con un nuovo linguaggio e una nuova identità. I ricordi e le percezioni del nostro sé primordiale si fanno sempre più inaccessibili, sepolti in un linguaggio emotivo e simbolico che l’Io non è più in grado di comprendere. È come se una barriera invisibile ma potente si alzasse, separandoci dalla nostra essenza e lasciando il bambino intrappolato dietro il velo delle narrazioni verbali e delle convenzioni sociali. Questo processo può essere immaginato come un “incistamento” dell’Io, che si innesta sull’essere puro, trasformandolo in una struttura funzionale ma limitante. Il Bambino Intrappolato e l’Io-Censore L’Io adulto è un costrutto consumante, che richiede un’enorme quantità di energia per mantenere il controllo sulla nostra psiche. Sigmund Freud, nel suo modello strutturale della mente, descrive l’Io come un mediatore tra le pulsioni dell’Es e le richieste della realtà esterna. Per mantenere questo equilibrio, l’Io deve operare come un censore, reprimendo impulsi, desideri e ricordi che potrebbero disturbare la stabilità della coscienza. Questo processo, noto come rimozione, implica un consumo energetico elevato, poiché l’Io deve costantemente vigilare e sopprimere le manifestazioni dell’inconscio. Freud osservava: “L’Io non è padrone in casa propria; è come un passeggero che si illude di poter guidare la carrozza, mentre è spesso dominato da forze più profonde.” Questa immagine evidenzia la complessità dell’Io, una struttura indispensabile per vivere nel mondo, ma che può diventare un ostacolo quando si identifica esclusivamente con la propria maschera sociale. Se l’Io fosse libero di funzionare nel suo ruolo originario – un interprete della realtà e un mediatore tra il nostro mondo interno ed esterno – l’essere umano potrebbe raggiungere il suo massimo potenziale. Tuttavia, l’Io spesso si sovraccarica, tentando di reprimere il bambino interiore e di conformarsi alle aspettative sociali. In questo stato, consuma risorse psichiche e genera un senso di alienazione. Le Conseguenze di un Abuso Inconscio La repressione del bambino interiore non è solo un problema personale: ha conseguenze profonde sulla società e sul mondo. L’Io, separato dalla sua essenza, agisce come un usurpatore, incapace di comprendere le vere necessità dell’individuo. Questo stato di alienazione interna può manifestarsi in comportamenti distruttivi, sia a livello personale che collettivo. Molti dei mali del mondo – guerre, disuguaglianze, distruzione ambientale – possono essere visti come il risultato di questa separazione. Gli esseri umani, scollegati dalla loro essenza, cercano di riempire il vuoto interiore con il potere, il possesso, e il dominio sugli altri. Questo ciclo perpetua l’alienazione e la sofferenza, sia individuale che collettiva. Un’analogia illuminante si trova nell’organizzazione delle società e delle istituzioni. L’illusione dell’”io-pelle”, che percepisce confini rigidi tra sé e il mondo, si riflette nei confini degli stati-nazione. Così come l’Io protegge la propria sopravvivenza reprimendo il bambino interiore, i governi e le istituzioni spesso concentrano le loro energie nel mantenere la loro esistenza, anche a scapito dei valori originari per cui sono nati. Partiti politici, associazioni e organizzazioni non governative possono iniziare con nobili scopi, ma col tempo rischiano di ridursi a combattere per la propria sopravvivenza come entità, sacrificando gli ideali iniziali. Per esempio, partiti politici nati per promuovere giustizia sociale possono finire per concentrarsi solo sulla perpetuazione del loro potere, dimenticando il motivo per cui sono stati creati. Allo stesso modo, confini e barriere tra nazioni, pur essendo costruzioni sociali, diventano fonti di conflitto e divisione, mantenuti per paura della “morte” culturale o identitaria. Questa paura, simile a quella dell’Io che teme la propria dissoluzione, perpetua cicli di alienazione e conflitto. Un Cammino Verso…
Categoria: saggio
I social? Da strumento ad ambiente il passo è breve! – di Domenico De Angelis
Questa breve riflessione sulla tecnologia e sui social media, con i relativi interrogativi, prende spunto dalle considerazioni di Saso in merito a quanto gli è successo a Matera in occasione della premiazione. Lo stesso anticipava come sia rimasto scosso dalla visione di un documentario targato Netflix (The Social Dilemma). Anche io sono rimasto scosso, l’ho visto e mi ha colpito parecchio. Pur non essendo un utilizzatore di social media quali Facebook, Instagram, Twitter ecc. dovrei esser lontano dalla sua analisi ma, benché sia considerato da molti un troglodita tecnologico, ahimè ne sono coinvolto anche io. Interroghiamoci semplicemente, senza perderci in tecnicismi sul loro funzionamento: cos’è la tecnologia? In particolare, quella legata ai social? Una prima risposta potrebbe essere la seguente: la tecnologia è quella realtà che ci permette – nei fatti – di abbattere e violare le relazioni spazio-temporali che costituiscono i rapporti umani. Con la conseguenza che ormai tutti (con buona pace dei nostalgici delle lettere di carta, ormai autentici reperti storici) considerano questo modello di relazione predominante nell’era 2.0 (o siamo già oltre?). Se questo è vero, è avvenuta una vera e propria trasformazione, a cui poco si pensa. Si subisce, forse, senza esserne coscienti. Cosa deduco da tutto ciò? Che la tecnologia non è più un semplice strumento (anche se ogni strumento porta con sé una finalità, quindi non è neutro) ma un “ambiente” nel quale viviamo (come suggeriva Günther Anders). Ecco spiegato perché all’interno di un contesto di bioetica si parla di tale realtà. Se ne tratta perché la bioetica ci permette di svolgere una riflessione critica della “civiltà tecnologica”. Critica non significa esprimere un giudizio positivo o negativo in sé. Ma semplicemente mettere in luce “come” stiamo vivendo nel periodo storico che abitiamo. Proviamo a considerare, per un momento, i social come un elemento imprescindibile della nostra esistenza. La potenza della loro portata non risiede nella tecnologia, ma nella possibilità di far emergere ogni pulsione e desiderio nascosto dell’uomo che, mascherato dietro uno schermo, si concede di tutto (davvero di tutto). Questo provoca necessariamente altre domande. Quella successiva è: come cambia il nostro rapporto con gli altri, con la società in generale e con la nostra umanità? In fondo, come si può notare, i social hanno introdotto una variazione radicale nel modo di rappresentare l’uomo. La relazione non è mediata dai gesti, ma dai tasti. Gli sguardi non restituiscono più alcuna emozione, sono gli “emoticon” a prendere il suo posto. Il respiro, l’attesa, la presenza (quella vera) non sono più considerati essenziali. Cosa spinge la realtà dei social media? Perché ogni algoritmo è ottimizzato per creare dipendenza? Perché ci spinge verso un pensiero “trappola” al quale cadiamo senza appello? Potrebbe essere banale ma non è frutto di generosità l’esser iscritti gratuitamente nei vari social… in fondo Harward insegna che “se il prodotto non lo paghi, il prodotto sei tu!”. Ciò che muove i social è l’economia che sta dietro. Si, può sembrare crudele, ma è la verità. Quanto valgono i tuoi gusti, le tue preferenze, i tuoi like e quanto ruota attorno al tuo account lo decide la pubblicità, trasformandoti da persona a numero, o contatto, che si aggiunge a migliaia di altri a cui vendere prodotti o servizi. Senza scomodare gli scandali della vendita di dati più o meno sensibili. E ci stupiamo se dopo aver pronunciato la parola “smartphone” per caso in una conversazione arriva la notifica dell’ultima offerta disponibile negli store? O se, discutendo di paesaggi, diciamo casualmente “Grecia!” per accorgerci della notifica che propone come news la vacanza last minute ad Atene? Che ricadute ha tutto ciò sul nostro modo di pensare? Quanto ci condiziona? Domande a cui magari risponderemo tra qualche tempo… per adesso, fermiamoci e “scolleghiamoci”, per un attimo. Facciamo un bel respiro e proviamo a “pensare”. Si, pensare. Questa bellissima attività che abbiamo delegato ormai ai motori di ricerca “surfando” da un link all’altro senza mai approfondire nulla. Recuperiamo il nostro di pensiero. Quello svincolato da qualsiasi feedback, stimolo o altre dinamiche suggerite dai social media. Tradotto: torniamo ad essere protagonisti delle nostre riflessioni, generate dal silenzio (interno ed esterno), da un buon libro e, magari, da una vera conversazione con un amico davanti un camino che anticipa il cammino del dialogo… a tu per tu! Che ne pensate? Se “condividete”, poniamo in essere anche noi, decisi, come qualcuno ci ricorda, più relazioni e meno connessioni! Domenico De Angelis
The social dilemma. Facciamo un passo indietro.
L’altro giorno ero a Matera a ritirare un premio letterario e, subito dopo la cerimonia, ho chiacchierato con un “collega” scrittore a proposito dei social media. Da parte sua, lamentava la sempre più diffusa tendenza da parte degli scrittori famosi e meno famosi di passare sempre più tempo sui social. Dal canto mio, riferivo che, secondo me, il problema dei social è molto più generico e, sì, ogni categoria lo sente in maniera diversa e rispetto a se stessa, ma che il danno più potente è sulla nostra psiche. Fornivo un esempio: i social sanno quello che ci piace e ce ne propongono sempre di più, così che siamo portati a passare sempre più tempo sul feed, divorando sempre più notizie di scienza, fantascienza, moda, motori, calcio, eccetera, a seconda dei nostri gusti. Giusto, diceva lui, anche perché gli algoritmi che gestiscono il feed e intrappolano i nostri gusti lavorano continuamente, forse in maniera collaterale-forse in maniera programmata, per confermare la nostra visione del mondo, rassicurandoci e, di conseguenza, facendoci sentire sempre più a nostro agio nel feed. Per esempio, se io odio Salvini, metterò mi piace a certi post che ne parlano male, seguirò pagine che analizzano e smontano le sue bufale, e di conseguenza Facebook mi fornirà sempre più contenuti e suggerimenti simili: lo fa per me, perché sa che mi sono graditi. Ma allo stesso tempo mi impedirà di sentire l’altra campana. A questo punto della conversazione, ammetto che da qualche tempo stavo pensando di abbandonare i social o, comunque, di limitarne l’uso abbondantemente. Come farlo, ancora non sapevo, ma ero certo di aver notato delle somiglianze tra il modo in cui aggiornavo il feed – la home di Facebook o di Instagram – e certi disturbi psicologici noti come ludopatie. Ogni volta che aggiorno il feed, in alto c’è un contenuto nuovo. Ogni volta che le notifiche suonano, c’è la possibilità che sia un amico che mi tagga, una bella ragazza che ha messo un like alla foto, un cliente che vuole che gli corregga un romanzo o una tesi. E ogni volta che apro il cellulare, in effetti, c’è la possibilità che io “vinca” una di queste cose. Come le macchinette dei bar, ogni tanto il sistema mi fa vincere, per convincermi subliminalmente che più gioco e più probabilità avrò di incassare. È già un buon motivo per staccare, mi dico. Successivamente abbiamo parlato di come le grandi aziende riescono a ricavare più di queste semplici indicazioni sui nostri gusti semplicemente accumulando dati su dati (è un po’ quello che fa, in un contesto fantascientifico, la Delos in Westworld). Come lo fa? Registrando le nostre ricerche, i nostri like, i nostri comportamenti on line. Non solo, dice il collega scrittore, mentre parliamo il nostro cellulare sta registrando ciò che diciamo. Non invierà nulla di personale al calcolatore centrale, non conserverà le nostre conversazioni ma isolerà alcune parole chiave per indirizzare i coockie e fornirci contenuti e pubblicità sempre più puntuali. Davvero? Chiedo conferma, perché sono molto stupito. Sì, per esempio, lo sai che ho rotto il portafogli? Sì, lo sapevo, perché me lo aveva detto poco prima. E glielo avevo sentito dire anche prima che iniziasse la cerimonia di premiazione, mentre parlava con un altro vincitore. Bene, dice, guarda: apre il cellulare e scorre la home per qualche secondo, forse per un intero minuto, poi, di colpo, tra i tanti post di articoli di giornale e belle donne, ne compare uno che parla di portafogli in pelle della PiQuadro. Se pensi che è un trucco, prova a casa, mi dice. Ammetto che la cosa mi ha lasciato di sasso e manifesto le mie perplessità, confessando tuttavia di sentirmi davvero convinto, adesso, di voler staccare dai social. Ci salutiamo e torniamo ognuno nei nostri alloggi. La sera prendo il cellulare e vedo che Netflix mi ma mandato una notifica: “Hai visto The Social Dilemma?”. Non lo avevo visto. prima di andare a dormire, accendo la tv, trasmetto lo schermo del cellulare e comincio a vedere questo documentario, che parla di tutto quello di cui ho parlato con il mio collega e di molto di più. Un’ora e mezzo dopo mi rendo conto che quando ho intuito la somiglianza del modo in cui usavo i social con le ludopatie avevo solo cominciato a grattare la montagna di merda subliminale che questo genere di “servizi” sta infilando nel nostro cervello. Ho sempre pensato che i social fossero uno strumento come lo è un coltello, che puoi usare per tagliare il pane o per uccidere una persona. Sta a me, mi dicevo, scegliere come usare Facebook. Adesso però non ne sono più tanto sicuro. Anzi, sono certo che se del coltello sappiamo tutto, dei social sappiamo davvero poco. Non sappiamo per esempio le cose che loro sanno di noi e del funzionamento della nostra mente (e di come manipolarla senza farcene accorgere). Se siamo consapevoli, possiamo scegliere e agire di conseguenza, ma se non siamo consapevoli, allora possiamo dire addio al nostro libero arbitrio. Il documentario è fatto molto bene – troppo bene, tanto che vi invito a vederlo ma con molta attenzione, vagliando una a una le informazioni fornite e confrontandole con altre fonti – e per tutta la sua durata avrete la sensazione di trovarvi all’interno di una puntata di Dark Mirror. Non so se il 100 percento di quello che vedrete vi convincerà – perché non so se il 100 percento di quello che ho visto è vero, sto studiando, magari più in là vi dirò meglio. Quello che so è che dovete vederlo assolutamente. E che probabilmente dopo farete come me: cancellerete le app di Facebook e Instagram dal vostro cellulare. Sono off da una settimana, non so quanto è radicata la mia “Ludopatia” e quindi mi aspetto da un giorno all’altro di andare in astinenza. Ma ho dalla mia parte una maggiore conoscenza del nemico, una forte motivazione e tanti sostituti sani al piacere somministrato in forma di passatempo che i social mi…
PANDEMIA E GUERRA DEI MONDI. Il ruolo dell’Abilità Critica e dell’Alfabetizzazione Digitale nell’ondata di psicosi generata dal Corona Virus
ALLE OTTO IN PUNTO della sera di domenica 30 ottobre 1938, la rete radiofonica statunitense Cbs trasmetteva in diretta La Guerra dei Mondi, un radiodramma tratto dal romanzo omonimo di H.G. Wells e diretto da un giovanissimo Orson Welles. Attraverso il registro realistico dei notiziari radiofonici, e una schiera di personaggi ben costruiti per apportare credibilità agli eventi narrati (dallo scienziato all’ammiraglio della marina, con i quali il finto conduttore del falso Tg si collegava durante tutta la diretta), la trasmissione divenne l’esempio più eclatante del “potere dei media di falsificare la realtà”. Infatti, nonostante il dramma fosse preceduto dal consueto concerto per pianoforte di Ciaikovskij (sigla del “Mercury Theatre on air”, contenitore in cui ogni settimana veniva ospitato un radiodramma diverso) e presentato dall’introduzione dello stesso Orson Welles, quasi un americano su tre, in quella notte di Halloween, credette davvero che gli alieni fossero sbarcati sulla Terra e stessero invadendo l’America, mettendosi in macchina e intasando le autostrade nel tentativo di lasciare il Paese. A seguito del più grande evento mediatico della storia, almeno fino all’11 settembre 2001, uno psicologo brillante come Albert Hadley Cantril analizzò le miriadi di lettere pervenute alla radio statunitense successivamente alla notte di Halloween e, anche grazie a una indagine a tappeto svolta attraverso il metodo statistico dell’intervista, offrì il primo studio scientifico approfondito della cosiddetta “psicologia dell’ascolto”. Le cui conclusioni, scomponendo attentamente anche il programma radiofonico, furono tante e fondanti per le successive scienze della comunicazione di massa. Cantril infatti concludeva, dopo mesi di indagini, che le cause per cui era stato possibile che milioni di americani credessero all’invasione dei marziani potevano riassumersi attraverso pochi punti: – “La natura della fiducia del pubblico nel mezzo radiofonico in sé. La Guerra dei mondi fu trasmessa in un periodo in cui la radio aveva sostituito i giornali come fonte primaria di informazione”. – “Il grado di instabilità politica del tempo”. – “Il contesto d’ascolto: molti si sintonizzarono tardi o per ‘contagio’, invitati da conoscenti al telefono a connettersi alla radio, fomentandosi a vicenda”. – “Il profilo psicologico e sociale del pubblico: Cantril ha riscontrato personalità di ascoltatori molto più propensi di altri a credere senza riserve, ascoltatori incapaci di fare uso di senso critico. In particolare, la mancanza di senso critico è stata riscontrata, nelle interviste fatte da Cantril, soprattutto in ascoltatori con un minore grado di alfabetizzazione e limitato consumo culturale”. – “L’alto grado di realismo della trasmissione. ‘Non sembrava un radiodramma’, riferì uno degli ascoltatori al sociologo americano”. [fonte: Tiziano Bonini, Doppiozero] È lapalissiana e gigantesca la differenza tra la vicenda de “La guerra dei mondi” e la psicosi che stiamo vivendo a causa della pandemia del cosiddetto Corona Virus, ma possiamo rintracciare comunque alcune importanti analogie. – La maggior parte delle persone vengono “sintonizzate per contagio” agli aggiornamenti e alle notizie fake, invitati da conoscenti e amici attraverso rapidi messaggi di chat o sms. – Pur trovandoci all’interno di una particolare congiuntura storica di crisi e incertezza, la nostra quotidianità è assai diversa da quella degli americani del tempo, minacciati da guerre imminenti e sconvolgimenti politici internazionali. Tuttavia è indubbio, oggi, che molte persone siano in leggero stato di ansia riguardo alle sorti dell’infezione”: telegiornali e testate giornalistiche stanno creando quotidianamente un allarmismo “strisciante”, sfociato in molti casi in una preoccupazione di fondo per l’incolumità propria e dei propri cari. C’è insomma chi, in questi giorni, stia temendo sinceramente la situazione stia sfuggendo o, addirittura, sia sfuggita di mano, così che, collegandosi (spontaneamente o a seguito di un sollecito) ai principali social e, in specie, alle pagine che propagandano fake new, stia inconsciamente bypassando le informazioni sul tono degli articoli, dei messaggi vocali, delle vignette, rimanendo psicologicamente cieco e inconsapevolmente insensibile all’ironia. È qualcosa che sperimentiamo quotidianamente, similmente a quando abbiamo gli occhiali sulla testa e li cerchiamo ovunque: chi è preoccupato per qualcosa dà per scontati molti dettagli, impiegando le proprie energie consce e inconsce per concentrarsi nell’ideazione di una strategia risolutiva e mancando così di controllare ciò che è dato per ovvio (provare a cercare gli occhiali sulla testa, per esempio, quando l’ansia suggerisce: “li ho persi”). Orson Web. Per quanto riguarda l’evento su scala decisamente maggiore della “Guerra dei mondi”, Cantril ammette che l’analfabetismo (all’epoca ancora diffusissimo) aveva favorito la mancanza di una abilità critica minima per discernere realtà e finzione drammatica. Soprattutto però il limitato “consumo mediatico” (nel caso specifico radiofonico) di alcuni aveva facilitato l’equivoco: chi non era abituato allo stile e ai registri radiofonici, non aveva metri di paragone per capire la natura del radiodramma; non avendo mai fruito un dramma radiofonico, un americano su tre non ne riconobbe gli stilemi nell’opera di Welles. Così come oggi, chi non passa molto tempo su Internet e nei social network non ha molta famigliarità con il genere di finzione iperrealistica a cui le nuove tecnologie ci hanno abituato: solo su Facebook, girano ogni giorno decine di “scherzi” , con fotomontaggi più o meno credibili e fan-fiction (racconti di finzione ispirati a “fatti” di attualità, a VIP o a personaggi di film e telefilm famosi, scritti dagli appassionati) costruite più o meno ad arte. L’alfabetizzazione tecnologica permette di capire sin dai primi fotogrammi di un video o dai primi secondi di un audio la natura dello “scherzo”, mentre i pochi che, non avendo abitudini internettiane, si ritrovano davanti a qualcosa di “nuovo” non hanno alcun metro di paragone con cui giudicare le bufale. Il tema del Digital divide (la distanza tra chi ha familiarità con i mezzi digitale e chi no) è ancora attuale e influenza moltissimo la nostra società.
DENTRO LO SCHERMO – PIÙ VERO DEL VERO, COMUNQUE FALSO: IL REALISMO ESTREMO
DAL MOSTRO DELLA LAGUNA AL LUCERTOLONE DI CLOVERFIELD: È SEMPRE PIÙ DIFFICILE DARLA A BERE ALLO SPETTATORE. Nelle prime scene de Il mostro della laguna nera, la creatura fa la sua prima apparizione nuotando in maniera alquanto goffa per essere un’entità marina. I fondali sono palesemente di cartapesta, così come il pugnale brandito da Lucas nello scontro con Mark è visibilmente di plastica. E sul viso del mostro non ci sono segni di vita (né di sofisticati impianti robotici per dare espressione al volto, quali quelli utilizzati nei moderni Jurassic Park, Alien o Gremlins)[1]. Eppure, il film ha saputo a suo tempo assicurare “spavento e horror in giuste dosi”[2]. Oggi, tuttavia, il film fa sorridere e risulta spesso noioso, banale ai più. Per suscitare “spavento e orrore” oggigiorno il cinema deve sempre più fare ricorso alla tecnologia e all’ingegno delle industrie di effetti speciali, onde rendere più fotorealistica e quindi più verosimile possibile la rappresentazione. Il viaggio degli effetti speciali nel cinema comincia con Maries-Georges-Jean Méliès, un ex prestigiatore che accidentalmente scoprì il trucco della sostituzione e per primo adoperò dissolvenze ed esposizioni multiple (oltre ad essere stato uno dei pionieri del colore, che dipingeva a mano sulla pellicola) raggiungendo l’apice del successo con l’Industrial Light & Magic[3] di George Lucas (che ha reso “credibile” un’epopea fantasy a metà tra fantascienza e mitologia); tanto che nei film di oggi è sempre più difficile (a volte praticamente impossibile) distinguere il falso dal vero: i capelli del Principe Azzurro, nella trilogia di Shrek, sono un magistrale esempio dei progressi in questo campo. L’innovazione tecnologica si è spinta a tal punto che lo spettatore contemporaneo, sovraccarico di effetti speciali e mostri che sembrano veri, ha cominciato a “subire”, in un primo tempo, la prossimità del mezzo cinematografico, e successivamente ad abbisognarne sempre di più. Complice anche il progresso nel campo dei videogame, dove l’interattività sfiora la realtà virtuale. Si è sviluppata, infatti, negli ultimi tempi una nuova tendenza: la ricerca di una sorta di “realismo estremo”, un tentativo di portare il “patto con lo spettatore” al limite massimo, oltre la famosa frase iniziale “questo film ricostruisce una storia realmente accaduta”. Per il nuovo spettatore, sempre più incredulo[4], la frase è diventata: “Questa ‘è’ una storia vera, documentata in diretta: tutto ciò che vedrete è accaduto realmente”. Le videocamere digitali ultraleggere hanno fatto il “grosso” del lavoro. Il marketing ha pensato al resto. SOSPENSIONE DEL’INCREDULITÀ. Il primo a parlarne in questi termini fu Samuel Taylor Coleridge[5], ma del concetto si ha coscienza sin dai tempi di Shakespeare[6]: entrambi riconoscevano il tacito accordo tra drammaturgo e spettatore, per il quale quest’ultimo si impegnava ad “accettare” la finzione della messa in scena permettendo all’autore di portarlo in un mondo altro, durante le ore dello spettacolo. Se al teatro la convenzione della cosiddetta “quarta parete”, come limite immaginario tra realtà e finzione,continua ad essere accettata con la stessa facilità da Aristotele ai giorni nostri, nel campo cinematografico lo spettatore è stato, con il progredire della tecnica, via via sempre più “viziato”, fino a diventare incredibilmente restio e difficile da convincere a stringere il patto. In assenza del quale, è opinione comune[7], la fruizione del film sarebbe incompleta, imperfetta, o addirittura impossibile. Il modellino dell’Empire State Building del primo King Kong, se fosse riutilizzato in un film dei nostri giorni, provocherebbe il conseguente ed immediato rigetto di ogni virtuosismo registico, trovata narrativa o prova attoriale. Il pubblico non è più disposto a fare il lavoro sporco dello spettatore di cinquant’anni fa e delega lo sforzo immaginativo ai creatori di sogni dell’industria di effetti speciali. È così possibile, oggi, credere per centoventi minuti a storie di alieni che si massacrano nello spazio o alla maledizione di una prima luna caraibica purché non si vedano i fili che muovono le marionette (che si tratti di una texture poco curata sul viso di un extraterrestre creato al computer o di un microfono penzolante sulla testa dei pirati della Perla Nera nel film con Johnny Deep). Il patto, naturalmnete, non contempla soltanto mostri e astronavi, ma anche la psicologia dei personaggi, le premesse della storia o lo stesso mezzo attraverso cui le vicende vengono narrate. Così, se si accetta che un gruppo di ragazzi abbia incontrato una strega nel bosco e abbia documentato le vicende con una macchina da presa amatoriale, allora quella strega potrà sfoggiare tutti i poteri che lo sceneggiatore avrà cuore di darle senza che lo spettatore dica “questo è troppo”. Nel momento in cui però l’attore mostrasse un attimo di autocoscienza, tradendo il fatto di essere un attore e di esserne consapevole, questo romperebbe il patto, infrangendo il quarto muro cinematografico. MOCKUMENTARY VERSUS DOGMA. Il cinema ha visto negli ultimi tempi due tendenze opposte e nel contempo apparentate dalla stessa origine: la risposta al bisogno di verosimiglianza estrema. Nel falso-documentario (o Mockumentary), l’argomento trattato dal regista attraverso gli strumenti del documentario raggiunge uno spettatore più predisposto a crederci: si tratta della dissimulazione di una bugia grazie a un mezzo solitamente al servizio della verità. Tra gli esempi più celebri, Zelig di Woody Allen fa proprie le peculiarità del documentario storico raccontando una storia indubbiamente falsa ma altrettanto efficacemente capace di plausibilità. Ciò che un documentario tradizionale suscita nello spettatore è, infatti, il dubbio che tutto il narrato possa essere stato inventato (una recente trasmissione Usa[8] ha affrontato il primo sbarco sulla luna alla luce della teoria del complotto formulata dall’americano Bill Kaysing nel suo libro We never went to the moon, del 1976, analizzando immagini e trasmissioni dell’epoca allo scopo di reperire indizi su fantomatici effetti speciali utilizzati per rendere realistico l’evento), un falso documentario invece inverte questo processo trasformando il dubbio dello spettatore in “potrebbe essere vero?” (per rimanere nell’esempio del primo allunaggio, il mockumentary Operazione Luna – Kubrick, Nixon e l’uomo sulla Luna[9], del 2002, ricostruisce il complotto operando per renderlo plausibile e chiama in causa l’ipotetico coinvolgimento del presidente Nixon e del regista Kubrick). Film come Accordi & Disaccordi (ancora di Allen), Forgotten Silver di Peter Jackson, o…