Quando sono rimasto bloccato in galleria sul treno più tecnologico del mondo, in un punto imprecisato tra Flam e Bergen, erano già quindici giorni che girovagavo per la Norvegia. Il mio inglese non è magnifico, ma quando si viaggia da soli in terra straniera, lo sapete, il cervello innesca meccanismi di sopravvivenza efficienti. Così, al netto di un accento ridicolo e qualche svarione, sono riuscito a imbastire una conversazione con la vicina di posto e, vista l’occasione propizia, a portarla avanti per le oltre 9 ore di sosta imprevista fra le rocce nude di un tunnel comunque bene illuminato e suggestivo. Chiacchiero quindi con questa ragazza, dal sorriso incorniciato da lunghi riccioli biondi, e scopro che è originaria di Bergen, studia a Oslo architettura e sta tornando a casa dei suoi solo per salutarli e ripartire alla volta dell’Inghilterra, dove terminerà i suoi studi con un tirocinio. “Le nostre università funzionano così”, mi spiega, “Alla fine del triennio ci mandano dove si fa la scienza o, comunque, nel posto in cui ciò che studiamo è allo stato dell’arte”. Poteva scegliere tra Londra, una città americana e Dubai, ma amava il tennis. Così mi ha detto. Dal canto mio, le racconto che, per ora, sto facendo un lavoro che non mi piace, ma che mi permette di avere ciò che mi serve, compreso un bel po’ di tempo libero, per fare tutti i viaggi che voglio. “Manco da casa da più di un mese”, le dico. “E non ti manca per niente, casa?”, mi chiede. “No, non è che sto via da un anno. Però, aspetta, qualcosa che mi manca c’è: la pizza. In Norvegia non sono riuscito a mangiarne una che sia degna di questo nome!”. “Ok”, mi dice lei, “Allora stasera, appena arriviamo a Bergen, sarai mio ospite nella migliore pizzeria italiana di tutta la penisola scandinava”. Con queste premesse, le mie aspettative raggiungono vette inesplorate e cominciò già ad accusare un certo languore. Inoltre, sia detto tra parentesi, ho appena ricevuto un invito a cena da una bella ragazza norvegese: ora sì che il mio viaggio può dirsi giunto a regime. Sono le 20 precise, quando arriviamo a destinazione, lei chiama un taxi e ci fermiamo davanti al locale che vedete in foto. Peppes. Ok, uno che si chiama Peppe, la pizza la deve saper fare per forza, mi dico. Entriamo, ci sediamo, e il cameriere ci porta il menu, rigorosamente trilingue: italiano, inglese e norvegese. Io ordino la margherita, ingredienti: pomodoro, formaggio e origano. “Origano”, rifletto tra me e me, “forse hanno sbagliato a tradurre. Povero Peppe, che sfiga: “deve essersi affidato a una stamperia del posto, che ha tradotto le sue indicazioni con il traduttore di Google. Va be’, aspettiamo. Dopo nemmeno dieci minuti, vedo da lontano uscire il cameriere dalla trincea della cucina a vista, con due piatti che, essendo noi gli unici due nel locale, dovevano essere nostri per forza. Lei mi dice: “Adesso vedrai: non ti farà rimpiangere la pizza di casa tua” (ok, non ha detto proprio così, perché il suo inglese è migliore del mio e io la metà delle parole che dice non le capisco. Però, dai, il senso non può essere lontano da quello, almeno a giudicare dal suo splendido sguardo). Quindi questo ci raggiunge, posa le pizze sul tavolo, io guardo lui, lei guarda me, lui guarda le pizze, tutti guardiamo le pizze e io alzo le mani dalla tavola e mi sbraco nella poltroncina. Allora, avete presente le focaccine della mulino bianco? Quelle rettangolari, piccoline, imbustate come se fossero merendine, dal sapore orribile e la consistenza gommosa? Ok, la pizza di Peppes aveva quell’aspetto, ma era molto, molto peggio. Il pomodoro c’era, come da menu, ma era stato tagliato a fette e cucinato con la “pizza” (che avrei dovuto già mettere tra molte virgolette sin dall’inizio). Il formaggio era una specie di grana grattuggiato fino fino e l’origano, perdincibacco, era davvero origano: un pugno di polverina verde messo al centro della… cosa, che non voglio più chiamare pizza per rispetto a tutti i miei amici napoletani. Lei mi fa: “Non giudicarla dall’aspetto, assaggiala”. Io ho pensato di non farlo, ma lei era molto carina, e così dolce, così mi sono deciso a fare quell’ultimissimo sforzo: quanto potrà fare schifo? Be’, in una scala da 1 a 10 faceva schifo tipo mille scale. E a questo proposito ne chiedo una al cameriere e insieme gli domando se ha un cacciavite, per fare quello che Checco Zalone ci ha insegnato a fare in casi come questi: smontargli l’insegna. Alla fine ha pagato lei – io ho pure insistito, eh, ma lei doveva essere molto dispiaciuta, del tipo: cavolo studio nelle migliori università e non so distinguere una pizza da una gomma da masticare? Insomma, ha espiato così le sue colpe. Io le ho detto che, dai, non fa niente, e poi ho chiamato il taxi. Davanti al mio hotel le ho chiesto se voleva salire. Mi ha detto di no. E insomma, la mia prima giornata a Bergen non è stata proprio indimenticabile. Ma voglio lasciarvi con un lieto fine: due giorni dopo, torno in stazione per ripartire alla volta di Oslo, stavolta tutto in una tirata, ed entro in un bar. Chiedo un caffè – altra cosa che all’estero raramente sanno fare – e mi aspetto la solita ciofeca. Invece, vi devo dire, nella stazione di Bergen (foto nel primo commento) il caffè lo sanno fare eccome. Miglior espresso d’Occidente. E per oggi è tutto, il vostro inviato dal Nord Europa Saso Tigani.
Autore: sasotigani
Articolo de “Il quotidiano del Sud”
RECELIBRO – “Il diario di uno spalatore avventuroso” di Pino Napoli
Rivolgendosi al lettore con una sincerità disarmante, spesso troppo generosa persino per gli stomaci più forti, Pino Napoli ci racconta la storia di un pusillanime, campione della squadra cosmica dei perdenti, sposato quasi per miracolo a una donna bellissima e padre di un figlio meraviglioso che sente intimamente di non meritarsi. Un uomo che, repellendo se stesso, trasmette al mondo il proprio disagio influenzando la sua identità sociale al punto da farsi terra bruciata intorno. Un uomo che ha fatto della propria commiserazione un’arte e che, quando persino la moglie si stanca di lui, abbandonandolo insieme al figlio e alla sua vita di merda, tocca il fondo di una depressione dai toni decisamente horror. “Partire è un po’ morire/rispetto a ciò che si ama”, recita la poesia più famosa dello scrittore francese Edmond Haraucourt. E il protagonista del libro di Pino Napoli, “Il diario di uno spalatore avventuroso”, è uno che per tutta la vita ha temuto di partire per paura di morire a se stesso. Ma, come si dice, bisogna toccare il fondo per darsi la spinta necessaria a risalire. Nel libro di Napoli, classe 1973, polistenese e “scrittore per passione”, si racconta questa caduta a precipizio nel fondo più profondo dell’animo umano. Un viaggio attraverso l’inferno dell’anima in cui magia e avventura servono la storia con passo delicato e riverente, senza mai rubare la scena al conflitto interno del protagonista o alla splendida evoluzione del suo rapporto con il proprio “bambino”. Lasciato finalmente solo a confrontarsi con il suo ruolo di padre, senza più il rassicurante status sociale di marito, il nostro spalatore di catrame impegnato fra i ranghi più umili della manutenzione stradale parte insieme al figlio Rob e al fedele amico a quattro zampe Rufus per una scampagnata improvvisata e irresponsabile, parte all’avventura e comincia un po’ a morire: alcuni dei dialoghi più potenti del libro sono proprio quelli in cui il giovane coprotagonista, in età ancora scolastica ma dalla favella e dal raziocinio impressionanti, mette il padre davanti alla sua miserabilità. Nel lettore il cuore si spezza più volte ma è proprio di questo che stiamo parlando: se vuoi rinascere devi prima morire. Un viaggio quindi nella selva oscura, letteralmente e metaforicamente, alla ricerca di se stesso. Un viaggio alla conquista dell’amore di un figlio che non ha mai smesso di amarlo e di una pace che non ha mai creduto di meritare. Un viaggio per rimediare, espiare, rinegoziare il proprio patto con l’universo e con se stessi. Il libro alterna sequenze mozzafiato a momenti di pura contemplazione e pur deliziandoci con alcuni esempi di scrittura portentosa non è completamente scevro da difetti. Per prima cosa lamentiamo la rapidità con cui l’autore liquida i due protagonisti umani al termine della storia, contrapposizione leggermente stonata rispetto alla lentezza eccessiva di alcune descrizioni oniriche. In secondo luogo, la scansione narrativa è forse viziata e penalizzata dalla mancanza di una riscrittura o revisione: si ha spesso la sensazione che l’autore abbia voluto “liberarsi” con troppa urgenza di questa storia, pubblicandone le prime bozze senza ulteriore riflessione. Quasi un bisogno, probabilmente legato alle forti componenti autobiografiche chiaramente palesate nel testo. In ultimo, ma ugualmente importante, la scelta di inserire nelle fasi iniziali del racconto la lunghissima sequenza di sogno di cui si è appena detto: il sogno è per definizione interessante soltanto per il sognatore (abbiamo affrontato tutti, almeno una volta nella vita, con la stessa malcelata noia e lo stesso disinteresse il racconto appassionato del racconto onirico di un parente o un amico) salvo che non ci sia stato il tempo per identificarsi con lui. Ecco, forse il problema più grande del libro di Napoli è la sua asciuttezza. Il Diario ha la sostanza di un racconto lungo e la forma di un romanzo e lascia il lettore con la voglia di saperne di più e la certezza di non poterne sapere. Alcune delle scene più elevate accadono addirittura “dietro le quinte”, come il conflitto con il segugio, ingiustamente maltrattato, conflitto che rimane irrisolto fin oltre la conclusione, impedendo all’identificazione di sciogliersi e lasciando a metà l’ottima caratterizzazione dell’unico pur splendido personaggio animale. In fin dei conti però la lettura è delle più piacevoli e le invenzioni di Pino Napoli mozzano il fiato più di una volta, soprattutto nelle scene finali, dove tutti i nodi vengono al pettine e i semi abilmente piantati per tutto il libro fruttificano in un’unica, magistralmente raccontata sequenza di vera “paura”. Inoltre la tematica, tanto cara a Pino Napoli, del rapporto padre-figlio, incentrata sin dalla notte dei tempi sui concetti di emulazione e rigetto, di mitizzazione e parricidio, è nel racconto perfettamente metaforizzata, mai didascalica, eccezionalmente messa in scena. E, verrebbe da dire, “terribilmente” risolta, con una delle invenzioni narrative più “felici” del genere. Rintracciamo infatti alcuni riferimenti ai maestri del genere, da Poe a Lovecraft, passando per i racconti gotici e fantastici propriamente detti ma con più di una strizzatina d’occhio a certi racconti popolari della tradizione anglosassone: tra campane, spiriti dei boschi, manieri abbandonati. Ma non aggiungeremo altro per non rovinare la lettura. Lo Spalatore avventuroso è un libro della Greyskull Edizioni, venduto presso l’edicola-libreria di Ciccio Niglia a Polistena e molti altri esercenti calabresi al modico prezzo di 8 euro, ed è il secondo romanzo di Pino Napoli, un autore di cui speriamo di sentire riparlare presto, un viaggiatore che non ha paura di morire per ciò che ama ma soprattutto un nostro caro amico. Salvatore Tigani
Che mangiamo stasera?
– Mamma che mangiamo stasera? – Cosa vorresti mangiare? – Non lo so, calamari? – Non ce n’è, calamari. – Pesce spada? – È congelato, se lo tiro adesso fuori dal freezer mangiamo per le 11. – E allora boh, non so. – Possibile che solo pesce vorresti mangiare? – No, no, ci sono le piadine? – Finite. Domani mando papà a comprarle. – E va bene, dai, fai tu. – Eh, ma tu dimmi cosa vuoi che ti cucini e io te lo cucino. – Mamma, che ne so, almeno dimmi cosa c’è in casa. – E cosa c’è? Tante cose! Abbiamo… che ne so… c’è un sacco di roba… – Tipo? – Tipo… c’è pasta… – Vabbè, fammi quello che vuoi tu, dai, tranquilla, oggi sono più felice se mangiamo qualcosa che piace a te. – Tipo cosa? – E che cazzo ne so, mamma, mi sta passando la fame. Apri il frigo e raschiamo i cassetti della frutta: ecco, ecco! La frutta: mangiamo frutta stasera, ne abbiamo frutta?! – Li vuoi quei kiwi? – Ma che cavolo…? – Insomma. Io volevo solo sapere cosa volevi tu, oggi. Cosa volevi più di tutto. – Mamma, io l’amore voglio più di tutto. E di quello ce n’è tanto in questa casa che potremmo sfamare una brigata. – Ah, ora non cominciare a fare filosofia che sta arrivando papà che è al lavoro da stamattina e sarà morto di fame. A proposito, secondo te cosa vuole mangiare lui stasera? – Pasta! La pasta vuole. Pasta con l’olio. Ne abbiamo olio? Se no pasta asciutta. Cruda. Che a papà gli piace cruda la pasta, con tutto il pacco. Ok? Ce l’abbiamo un pacco vuoto? Grazie mamma, ti voglio bene mamma. – Anche io tesoro. – Mo’ però vai cucina, ok? Dal diario di Saso: Come sopravvivere ai Calabresi (estratto)
Zygmunt Bauman: Che cos’è davvero Facebook
“È solo un sito di incontri”. “Un modo per tenere i contatti con gli amici lontani e organizzare le uscite con quelli vicini”. “È un passatempo”. Sono le risposte più comuni al quesito. “Sicuramente è anche tutto questo” ammette Zygmunt Bauman, sociologo della post-modernità, 83 anni e innumerevoli pubblicazioni alle spalle. Ma cosa “significa” il successo di Facebook? Ciò che rende lecita se non addirittura urgente la domanda è l’incredibile impatto del fenomeno: solo per citare alcuni dati, il principe dei social network conta 500 milioni di utenti regolari (cioè persone reali, al netto di doppi profili e fake) che vi trascorrono in un mese 700 miliardi di minuti; il prezzo di mercato della società è stimato attorno ai 50 miliardi di dollari, il che ammette un valore approssimativo di 100 dollari per ogni nuovo utente. Una impresa di questo genere non ha precedenti e dunque, nelle parole di Bauman, Mark Zuckerberg sembra essere inciampato in un filone aureo: “Che il signor Zuckerberg abbia inventato Facebook o abbia rubato l’idea come alcuni sostengono, il fatto rilevante è che ha intercettato una domanda latente e massiccia per questo tipo di offerta”. Già nei primi mesi di vita, a milioni ci siamo precipitati a pubblicare foto, condividere interessi, creare profili: sembra fossimo tutti lì ad attendere l’uovo di colombo. Bauman, che ha appena terminato un tour di convegni in Italia, partecipando tra l’altro a “Che tempo che fa” e a “Libri come” (rassegna di letture e convegni organizzata dall’Auditorium di Roma), riconosce nella nostra epoca quello che Gramsci chiamava Interregno: un momento storico di grandi mutamenti in cui i vecchi “modi” non vanno più bene e quelli nuovi ancora non ci sono o tardano a essere assimilati. Nei suoi ultimi studi ha rilevato uno di questi “modi” nuovi per risolvere la tensione e il malessere sociale proprio nel social networking: “Il successo di Facebook si può spiegare” continua il teorico della società liquida “ammettendo che una gran parte della società si senta sola, confusa nel crollo delle comunità tradizionali, impaurita, che la gente tema la solitudine, l’esclusione sociale. E in sostituzione a un hag (abbraccio) sempre più raro si accontenti di un poke (da to poke: stuzzicarsi)”. Se i vantaggi e le qualità che rendono desiderabile un abbraccio, una relazione nel “mondo reale” sono scontati, ci si può ugualmente rendere conto di come ogni rapporto sociale comporti il rischio di sofferenza, sanzione sociale, lutto: diventare amici di qualcuno non è proprio una attività semplicissima e fare una dichiarazione o interrompere una relazione d’amore richiede grande energia. Al contrario, su Facebook bastano un dito e un clic per diventare “amici” o per sancire la fine di un’amicizia. Presentarsi alla ragazza dell’appartamento di fronte o attaccare bottone con la collega riservata comporta semplici operazioni di “richiesta di amicizia”, “commento a un link”, eventuale chat. Il “fastidio”, nelle parole di Bauman, di sostenere uno sguardo, una conversazione faccia a faccia, di incassare un rifiuto nascondendo la delusione o il rossore, è enormemente attutito dalla piattaforma Facebook e dall’insieme di codici a esso correlati e comunemente condivisi. Alle relazioni tradizionali che per millenni hanno sostenuto la società, si affiancano dunque quelle “mediate” da Facebook, apparentemente più “adattive”, più “vantaggiose”. Le amicizie digitali sono però per Bauman come le banconote false, le quali, una volta in circolo nel sistema, in ragione della loro “vantaggiosità” (sono più “facili”, meno costose, da acquisire), sostituiscono presto la valuta reale sconvolgendo il mercato. “La Rete non prevede norme, istituzioni o relazioni stabili” continua il sociologo “La rete si tesse e si disfà. È come la tela di Penelope che viene tessuta il giorno per essere disfatta la notte, perché non è concesso nessun progetto ma solo un eterno presente”. Dunque Facebook è molto di più che un sito di incontri, di un passatempo, di una fissazione collettiva, di una moda. Facebook è una prova generale d’evoluzione sociale. Un tentativo di mutazione. E si attende con ansia il giudizio dei sociologi. “La giuria è ancora riunita” ammette però Bauman “Bisognerà vedere se il mondo accetterà questi surrogati, se li rigetterà o se saprà affiancarli ad altre, nuove strategie sociali. In fondo Facebook non ruba la nostra umanità, ce la mostra soltanto. Non inquina la nostra identità di noi: è solo lo specchio di come siamo dentro”. Originariamente apparso sul Quotidiano della Calabria
Hack, la scienza e le “colpe” di Croce
LA professoressa Margherita Hack, invitata dal preside Vincenzo Nasso e dai professori Marcello Anastasi e Girolamo Calogero del Liceo Scientifico Guerrisi di Cittanova, è entusiasta di partecipare ad uno dei pochi eventi organizzati in Calabria per l’Anno Internazionale dell’Astronomia. Ieri ha incontrato gli docenti degli istituti superiori della provincia di Reggio. Un altro incontro è previsto oggi nella sala congressi della Banca di Credito Cooperativa di Cittanova con una relazione su “Le nuove frontiere dell’Astronomia”. Sarà poi premiata dall’orafo Gerardo Sacco con un riconoscimento alla carriera scientifica commissionato dal Liceo. In un’intervista esclusiva al Quotidiano, la Hack commenta lo stato della ricerca in Italia. Nel suo primo discorso da presidente, Obama ha promesso: «Ridaremo alla scienza il posto che le spetta» «Ecco, in Italia ci vorrebbe un Obama… Ma basterebbe anche uno Zapatero». Qual è questo posto, e perché l’hanno sottratto alla scienza? «Sottratto… parlando dellItalia c’è sempre stato pochissimo spazio per la scienza. Per “colpa” anche di Croce, e Gentile, che consideravano la scienza un sottoprodotto della cultura, a differenza delle materie umanistiche. Il problema è che la scienza è insegnata troppo poco e male, in maniera troppo astratta. Le scuole medie raramente hanno un laboratorio, e questo dipende moltissimo dall’iniziativa degli insegnanti: per esempio, in un paesino nei pressi di Pordenone ho visto una scuola elementare dove le maestre hanno creato un vero e proprio laboratorio di fisica, con mezzi di fortuna, roba raccolta nei cassonetti. I bambini in quel laboratorio fanno esperimenti come trasformare bottiglie d’acqua in strumenti musicali semplicemente riempiendole a diverse altezze; costruiscono una camera oscura, una stanza buia con un forellino e si vedono le immagini; oppure illuminano un paesaggio di cartone con una bicicletta e una dinamo. Così si capisce che la scienza non è campata in aria ma è nelle azioni e gli strumenti di tutti i giorni. Se in tutte le scuole facessero delle iniziative simili la scienza non sarebbe così ostile ai più giovani. Io ho capito il significato fisico di una formula astratta all’università, e nemmeno al primo anno!» La scuola italiana spinge maggiormente verso le materie umanistiche? «E’ la cultura italiana, la sua tradizione. Anche se poi ci sono troppi laureati in materie umanistiche e pochi posti di lavoro». Lei però ha fatto il liceo classico… «Mi hanno iscritto i miei. Ho perso tempo a studiare per 5 anni latino e greco, perché sono formativi, dicevano e dicono, ma avessi studiato più inglese mi sarebbe servito un po’ di più. E magari anche più materie scientifiche». Come si può suscitare nei giovani la passione per fisica, chimica, matematica, tutte discipline che a un dodicenne possono sembrare lontane dal mondo reale e del lavoro? «Però ogni marchingegno, cellulari, computer, senza ricerca di base, senza la ricerca scientifica nuda e cruda, non esisterebbero! (ride) Consiglio un libro, per le Editoriale Scienza, “La fisica del Miao”, sembra un libro di favole per bambini, ma è anche per grandi: io ho imparato parecchio, su quel testo. Per esempio le leggi che tengono in aria un pesantissimo Jumbo, e tutta una serie di fenomeni quotidiani che sembrano misteri. Alla base di ogni invenzione, oggetto di consumo, evento quotidiano, ci sono spiegazioni fisiche, e anni di ricerca». La stessa ricerca che oggi in Italia viene marginalizzata… «A Trieste per due anni si è organizzato il Fest (fiera editoria scientifica Trieste), e quest’anno se ne doveva organizzare una terza edizione. In una città dove, per iniziativa di un professore di fisica dell’Università, è sorto il Centro internazionale di fisica teorica, l’area di ricerca e una serie di iniziative scientifiche per le quali a Trieste ci sono otto ricercatori su mille abitanti, una media altissima. Invece un’amministrazione lungimirante, ovviamente di destra, taglia i fondi per il Festival, che avrebbe portato anche soldi, turismo, dando una spinta alla città in un momento di crisi. Avrebbe potuto diventare un evento importante e duraturo come il Festival di Genova». Lei ha criticato il governo proprio per questa miopia, per la quale invece di sovvenzionare la ricerca si effettuano tagli disastrosi. Berlusconi le ha ri sposto a Nuoro dicendo che “in tv mi ha attaccato persino una astrologa”. (ride) «Addirittura una astrologa! Adesso gli faccio l’oroscopo gratis…» Per i suoi detrattori lei non dovrebbe dire la sua in ambito politico, essendo un’astronoma. Nonostante sia stata iscritta al partito radicale transnazionale e si sia candidata un paio di volte con il i Comunisti italiani… «Io sono prima di tutto una cittadina italiana. Non sapendo come rispondere mi attaccano dicendo che dovrei soltanto stare a guardare le stelle. Ma le stelle sono oggetti di fisica straordinariamente importanti, e l’astrofisica è una palestra completa di fisica. Per interpretare la luce emessa dalle stesse, per esempio, si ricorre a tutte le branche della fisica: la meccanica per i moti, l’ottica per gli strumenti, la fisica atomica per interpretare gli spettri stellari, la fisica nucleare per capire quali sono le fonti dell’energia stellare, la relatività… E la scienza diventa sempre più precisa: un tempo si diceva che l’universo è nato tra i 10 e i 20 miliardi di anni fa. Adesso lo scarto è stato ridotto a 100 milioni di anni. Passi da gigante». Come mai allora proliferano ancora teorie poco scientifiche come il Creazionismo, la teoria del Disegno intelligente…? «Beh c’è questa voglia di credere, di irrazionalità… Mi ricordo della pubblicità degli autobus (ride): “C’è una brutta notizia, Dio non esiste. Ma la buona notizia è che non ne hai bisogno”. Che poi pare l’abbiano proibita perché, si temeva che gli autisti potessero fare obiezione di coscienza! Ad ogni modo, tutte queste pseudo religioni hanno preso piede e proliferano maggiormente in America perché lì sono molto più religiosi di noi, sono molto più creduloni. In Italia credo che la maggioranza di noi creda all’esistenza di Dio, ma non come una volta, temendo l’inferno o sperando nel paradiso, ma piuttosto in una maniera forse più epidermica. E poi in Italia c’è l’inferenza del Vaticano, una cosa inammissibile, favorita dai nostri politici. Penso sia inconcepibile che in un paese democratico un ministro, penso a Sacconi, faccia le grida manzoniane contro la clinica…
DENTRO LO SCHERMO – PIÙ VERO DEL VERO, COMUNQUE FALSO: IL REALISMO ESTREMO
DAL MOSTRO DELLA LAGUNA AL LUCERTOLONE DI CLOVERFIELD: È SEMPRE PIÙ DIFFICILE DARLA A BERE ALLO SPETTATORE. Nelle prime scene de Il mostro della laguna nera, la creatura fa la sua prima apparizione nuotando in maniera alquanto goffa per essere un’entità marina. I fondali sono palesemente di cartapesta, così come il pugnale brandito da Lucas nello scontro con Mark è visibilmente di plastica. E sul viso del mostro non ci sono segni di vita (né di sofisticati impianti robotici per dare espressione al volto, quali quelli utilizzati nei moderni Jurassic Park, Alien o Gremlins)[1]. Eppure, il film ha saputo a suo tempo assicurare “spavento e horror in giuste dosi”[2]. Oggi, tuttavia, il film fa sorridere e risulta spesso noioso, banale ai più. Per suscitare “spavento e orrore” oggigiorno il cinema deve sempre più fare ricorso alla tecnologia e all’ingegno delle industrie di effetti speciali, onde rendere più fotorealistica e quindi più verosimile possibile la rappresentazione. Il viaggio degli effetti speciali nel cinema comincia con Maries-Georges-Jean Méliès, un ex prestigiatore che accidentalmente scoprì il trucco della sostituzione e per primo adoperò dissolvenze ed esposizioni multiple (oltre ad essere stato uno dei pionieri del colore, che dipingeva a mano sulla pellicola) raggiungendo l’apice del successo con l’Industrial Light & Magic[3] di George Lucas (che ha reso “credibile” un’epopea fantasy a metà tra fantascienza e mitologia); tanto che nei film di oggi è sempre più difficile (a volte praticamente impossibile) distinguere il falso dal vero: i capelli del Principe Azzurro, nella trilogia di Shrek, sono un magistrale esempio dei progressi in questo campo. L’innovazione tecnologica si è spinta a tal punto che lo spettatore contemporaneo, sovraccarico di effetti speciali e mostri che sembrano veri, ha cominciato a “subire”, in un primo tempo, la prossimità del mezzo cinematografico, e successivamente ad abbisognarne sempre di più. Complice anche il progresso nel campo dei videogame, dove l’interattività sfiora la realtà virtuale. Si è sviluppata, infatti, negli ultimi tempi una nuova tendenza: la ricerca di una sorta di “realismo estremo”, un tentativo di portare il “patto con lo spettatore” al limite massimo, oltre la famosa frase iniziale “questo film ricostruisce una storia realmente accaduta”. Per il nuovo spettatore, sempre più incredulo[4], la frase è diventata: “Questa ‘è’ una storia vera, documentata in diretta: tutto ciò che vedrete è accaduto realmente”. Le videocamere digitali ultraleggere hanno fatto il “grosso” del lavoro. Il marketing ha pensato al resto. SOSPENSIONE DEL’INCREDULITÀ. Il primo a parlarne in questi termini fu Samuel Taylor Coleridge[5], ma del concetto si ha coscienza sin dai tempi di Shakespeare[6]: entrambi riconoscevano il tacito accordo tra drammaturgo e spettatore, per il quale quest’ultimo si impegnava ad “accettare” la finzione della messa in scena permettendo all’autore di portarlo in un mondo altro, durante le ore dello spettacolo. Se al teatro la convenzione della cosiddetta “quarta parete”, come limite immaginario tra realtà e finzione,continua ad essere accettata con la stessa facilità da Aristotele ai giorni nostri, nel campo cinematografico lo spettatore è stato, con il progredire della tecnica, via via sempre più “viziato”, fino a diventare incredibilmente restio e difficile da convincere a stringere il patto. In assenza del quale, è opinione comune[7], la fruizione del film sarebbe incompleta, imperfetta, o addirittura impossibile. Il modellino dell’Empire State Building del primo King Kong, se fosse riutilizzato in un film dei nostri giorni, provocherebbe il conseguente ed immediato rigetto di ogni virtuosismo registico, trovata narrativa o prova attoriale. Il pubblico non è più disposto a fare il lavoro sporco dello spettatore di cinquant’anni fa e delega lo sforzo immaginativo ai creatori di sogni dell’industria di effetti speciali. È così possibile, oggi, credere per centoventi minuti a storie di alieni che si massacrano nello spazio o alla maledizione di una prima luna caraibica purché non si vedano i fili che muovono le marionette (che si tratti di una texture poco curata sul viso di un extraterrestre creato al computer o di un microfono penzolante sulla testa dei pirati della Perla Nera nel film con Johnny Deep). Il patto, naturalmnete, non contempla soltanto mostri e astronavi, ma anche la psicologia dei personaggi, le premesse della storia o lo stesso mezzo attraverso cui le vicende vengono narrate. Così, se si accetta che un gruppo di ragazzi abbia incontrato una strega nel bosco e abbia documentato le vicende con una macchina da presa amatoriale, allora quella strega potrà sfoggiare tutti i poteri che lo sceneggiatore avrà cuore di darle senza che lo spettatore dica “questo è troppo”. Nel momento in cui però l’attore mostrasse un attimo di autocoscienza, tradendo il fatto di essere un attore e di esserne consapevole, questo romperebbe il patto, infrangendo il quarto muro cinematografico. MOCKUMENTARY VERSUS DOGMA. Il cinema ha visto negli ultimi tempi due tendenze opposte e nel contempo apparentate dalla stessa origine: la risposta al bisogno di verosimiglianza estrema. Nel falso-documentario (o Mockumentary), l’argomento trattato dal regista attraverso gli strumenti del documentario raggiunge uno spettatore più predisposto a crederci: si tratta della dissimulazione di una bugia grazie a un mezzo solitamente al servizio della verità. Tra gli esempi più celebri, Zelig di Woody Allen fa proprie le peculiarità del documentario storico raccontando una storia indubbiamente falsa ma altrettanto efficacemente capace di plausibilità. Ciò che un documentario tradizionale suscita nello spettatore è, infatti, il dubbio che tutto il narrato possa essere stato inventato (una recente trasmissione Usa[8] ha affrontato il primo sbarco sulla luna alla luce della teoria del complotto formulata dall’americano Bill Kaysing nel suo libro We never went to the moon, del 1976, analizzando immagini e trasmissioni dell’epoca allo scopo di reperire indizi su fantomatici effetti speciali utilizzati per rendere realistico l’evento), un falso documentario invece inverte questo processo trasformando il dubbio dello spettatore in “potrebbe essere vero?” (per rimanere nell’esempio del primo allunaggio, il mockumentary Operazione Luna – Kubrick, Nixon e l’uomo sulla Luna[9], del 2002, ricostruisce il complotto operando per renderlo plausibile e chiama in causa l’ipotetico coinvolgimento del presidente Nixon e del regista Kubrick). Film come Accordi & Disaccordi (ancora di Allen), Forgotten Silver di Peter Jackson, o…