Pareri o complimenti?
A proposito di scrittura creativa e aspiranti scrittori, vorrei condividere con voi una riflessione che è nata all’interno di un gruppo dedicato agli addetti ai lavori. Contiene anche qualche domanda rivolta a chi, come me, ama scrivere e sta percorrendo, da solo o in compagnia, la via lunga e irta di ostacoli che porta (o almeno questo è l’augurio) fuori dall’amatorialità e punta dritta alla consacrazione. Fatemi sapere la vostra, se vi va.
Quando mi fanno leggere qualcosa – e spesso mi capita, sia in ambito lavorativo che non – premetto sempre questa domanda: “Vuoi un parere o un incoraggiamento?”.
Perché negli anni ho capito che ci sono due tipi di “Scrittori Emergenti”: quelli che sono pronti per emergere e quelli che, se gli altri sono d’accordo, amerebbero stare in ammollo ancora un po’, tirando fuori la testa di tanto in tanto per una rigenerante boccata d’aria.
Il parere, secondo me, deve essere per forza critico, altrimenti diventa complimento e i complimenti, a meno che tu non sia giù di morale, non servono a niente. Quindi, se appartieni alla seconda categoria (se cioè vuoi solo essere blandito) dimmelo chiaro e tondo e mi spellerò le mani, concentrandomi su quanto c’è di bello in quello che hai scritto e sorvolando su tutto il resto. Io avrò faticato di meno, mi sarò fatto un amico, tu un sorriso e una bella dormita, ma entrambi, domani, occuperemo lo stesso posto nell’emergenza creativa.
E qui vado di aneddoto. Nel 2003 – o forse era il 2004 – ho partecipato a un concorso letterario nazionale, ben recensito, giurati di livello e numerosi feedback positivi tra gli addetti ai lavori. Racimolo una menzione speciale della giuria con un racconto che si chiama “Lana e io”, scritto in un paio di notti insonni, che parla d’amore parlando di fine del mondo. Un racconto a cui mi affezionai sin dall’incipit e che per qualche mese coccolai dandomi le pacche sulla spalla da solo.
Durante la premiazione (Giuria composta, tra gli altri, dalla Gamberale e da Antonio Pascale), spesero delle ottime parole sulla mia operetta e ricordo ancora lo sguardo orgoglioso di chi mi aveva accompagnato, in macchina, lungo i parecchi chilometri di distanza da casa mia. Non era il primo posto, ma, ehi, era una menzione speciale, che cavolo! Vuol dire che qualcuno, là in mezzo, aveva notato qualcosa. Ed era la mia prima volta: ragazzino, mi affacciavo timidamente nell’agone e ne emergevo messo nemmeno tanto male.
Poi però ci fu il rinfresco, i premiati mescolati con i giurati e gli ospiti, in mezzo alla calca degli spettatori. Io mi scontrai frontalmente contro Antonio Pascale.
“Ciao, grazie di tutto, sono molto felice del premio che mi avete dato”.
“Oh, ciao, tu sei quello di…?”.
Manco si ricordava? “Quello di Lana e io”.
“Giusto!”.
“Ti è piaciuto?”. Glielo chiedo timidamente, perché già, dentro di me, quell’entusiasmo che aveva mosso le mie gambe a mulinello per tutta la serata mi si stava strozzando in gola.
“Mmh. Diciamo che…. Insomma, alcune parti vanno bene, ma spesso ti dilunghi dove dovresti tirare dritto e invece tagli corto dove invece dovresti soffermarti”. Mi dà una pacca sulla spalla e va a salutare qualcuno che, dall’altro lato del salone, sta attirando l’attenzione con la mano alzata (Spoiler: era il direttore del tg1 di allora, mi sfugge il nome, ma se vi interessa recupero dalla libreria il libro in cui sono raccolti i racconti finalisti e ve lo scrivo nei commenti).
Io, a ogni modo, rimango lì imbambolato. Il racconto non gli era piaciuto. “Lana e io” non era quel “capolavoro” che pensavo, visto che, ehi, avevo ricevuto la menzione speciale!
Pochissimo tempo dopo capii che la menzione speciale era un modo per dire: c’è del buono, incoraggiamolo, che magari, studiando un pochetto, facendo pratica sempre di più, questo qualcosa di buono buono prima o poi la scrive. Era, insomma, un vero incoraggiamento.
Sì, era il 2004, ora ne sono sicuro. E quell’anno mi fermai. Smisi di pensare e puntare ai concorsi letterari (fino all’incontro con Pascale avevo già programmato di inviare altri cinque racconti ad altrettanti premi) e mi misi a studiare. Prima di tutto per capire cosa voleva dire, con quella frase sibillina lo scrittore del bellissimo “La manutenzione degli affetti” e poi per arrivare preparato al prossimo incontro con il destino.
Seguii un corso di sceneggiatura, un corso di scrittura narrativa e uno di scrittura giornalistica. Feci la gavetta in un paio di giornali, uno locale e uno nazionale, e poi il tutor per il laboratorio di scrittura narrativa e giornalistica della Sapienza (in collaborazione con la Scuola Omero) per tre anni e passa.
In libreria, conto circa una quarantina tra manuali tecnici e “Biografie di un mestiere”, per dirla alla King (quei libri di scrittori che svelano i propri “segreti”).
Ridendo e scherzando, passano dieci anni. Dopo di che mi ricordo dei concorsi letterari e in un solo anno, anzi in due, partecipo e vinco in almeno 4 importanti premi. Due secondi posti, un primo premio e – paradossalmente il riconoscimento a cui tengo di più – una menzione speciale al Premio Robot.
Ora sì che mi sento uno scrittore emergente. Ne devo fare di strada ancora, ma la vita è lunga e, grazie al cielo, non ho mai avuto fretta. Tuttavia rimane ancora, dentro di me, la lezione imparata nel 2004. Ogni volta che faccio leggere qualcosa a qualcuno mi domando: cosa voglio, un parere o un incoraggiamento? E mi rispondo sempre: speriamo che mi trovi almeno dieci difetti. Perché così, imparando a individuarli e praticando per correggerli, avrò la possibilità di diventare dieci volte più bravo.
Ultimo aneddoto: ho dei betatester fidati nei miei amici più cari. Uno di loro, che fa parte della nutrita ciurma di questo gruppo, una volta mi ha smontato il finale di un racconto che, secondo me, finiva perfettamente. Anzi, ne ero così contento che non vedevo l’ora che arrivasse alla fine per chiedergli “che ne pensi di come finisce? Eh? EH?!”. Alla fine il finale fu l’unica cosa che non gli piacque, e mi spiegò perché.
All’inizio mi bruciò il culo – if you pardon my french – ma passati quei quindici minuti di ribollimenti subconsci ci rimuginai un po’ su, più lucidamente, e capii che c’era un errore davvero grossolano. Il giorno dopo gli sottomisi la versione riveduta e corretta, quindi lo inviai a un concorso.
Fu uno di quei racconti vincitori, che l’anno dopo comparve in una rinomata rivista letteraria insieme al racconto vincitore del primo posto e a quello arrivato terzo.
Adesso io vi chiedo – e ve lo chiedo sinceramente, attendendomi che, in disaccordo con me, argomentiate per farmi cambiare idea di nuovo e ancora – voi cosa volete da noi, quando ci scegliete come beta-reader (Primi Lettori) e ci sottoponete i vostri estratti? Di cosa avete più bisogno, adesso, in questo momento della vostra vita e del vostro percorso di emersione artistica? Desiderate di più un parere o un incoraggiamento?