LOST IN PORTOGALLO EP. 2 – UN CALABRESE IN PORTOGALLO
Non parlo portoghese. Non so quanto ci azzecchi, ma non parlo nemmeno spagnolo. Conosco giusto qualche parolaccia. In Spagnolo, dico. E, di più, a causa del Covid sono due anni che non viaggio, perciò anche il mio inglese è arrugginito. Quando mi avvicino al bancone dell’InfoPoint, al centro del Terminal, conto di essere il più concentrato possibile. «Hello, I’m italian, my english is not good and I’m in Portougal for a mistake». La signorina spalanca gli occhi e la bocca e mi risponde: «In che senso è qui per errore?». Mostro la carta di imbarco digitale e, sempre in inglese masticato, spiego che avrei dovuto andare da Treviso a Lamezia ma che, appena atterrato, mi sono accorto di essere a Porto. La sua bocca rimane aperta per qualche secondo, poi i suoi occhi cominciano a curvarsi ai lati e la sua mano destra sale a coprirsi il viso. Si sganascia dalle risate prima di chiedermi con che compagnia ho viaggiato e, dopo aver annuito sentendo «Ryanair», mi dice di salire al terzo piano e parlare direttamente con loro, al box vicino ai cancelli di imbarco.
Prendo l’ascensore e intanto comincio ad ammirare lo scalo internazionale di Porto. L’Aeroporto Francisco Sá Carneiro, intitolato al Primo Ministro portoghese Francisco Sá Carneiro morto nel 1980 in un incidente aereo durante il mandato presidenziale, è sito a circa dieci chilometri dalla città di Porto che, mi diranno i vicini di posto sul viaggio di ritorno, è una città molto bella, addirittura più originale e affascinante della capitale Lisbona. Nel 2007 è stato classificato come il miglior aeroporto in Europa, e sicuramente per servizi e competenza posso confermarne, nel mio piccolo, il merito, ma noto (con dispiacere per il mio stomaco) che ci sono pochissimi punti di ristoro e quasi tutti con menu identici a base di panini con la cotoletta, sandwich e ciambelle fritte. C’è un solo ristorante, che trovo chiuso. E anche pochissimi negozi nell’aera di attesa: forse troverò di meglio dopo aver passato il gate, ammesso di riuscire a tornare in Italia.
Attraverso tutto il terminal moderno, tre piani di cui due di parcheggi, un ampio spazio per gli arrivi e alte vetrate che ne segnano il lungo perimetro. Passerelle sopraelevate ospitano un passeggio tra primo e terzo piano. Non sembra molto affollato, ma credo sia colpa della pandemia: nel 2019 ha registrato 13.11 milioni di passeggeri, mica noccioline. Ogni tanto sento parlare in italiano, riconoscendo persino qualche dialetto specifico, e becco al terzo piano una coppia di sposini Napoletani che ballano e canticchiano mentre fanno la fila a uno dei tanti sportelli per il check-in. Prendo nota: se dovessi sentirmi solo, ho svariate occasioni di attaccare bottone con un «paesano» e sentirmi meno lontano da casa.
Al box Ryanair non c’è fila: «Buongiorno, sono qui perché ho preso l’aereo sbagliato a Treviso e invece di tornare in Calabria mi sono ritrovato in Portogallo. Potete aiutarmi?». Le due addette mi restituiscono la stessa espressione della tizia del Punto Informazioni, stavolta in stereo: entrambe mi guardano a lungo, occhi sbarrati e linea della bocca congiunta in una grande O di stupore. «Qual è il suo nome?», mi chiede alla fine una di loro. Glielo dico, facendo lo spelling. Ovviamente parliamo inglese, inciampando entrambi. «Può darmi il suo passaporto?». «Ehm. Non l’ho portato con me. Dovevo solo andare da Treviso a Lamezia terme, you know, una passeggiata e…». Prendo la carta di identità, la carta di imbarco e gliele agevolo. Lei non smette di scuotere la testa, non riuscendo ancora a capacitarsi.
Dopo venti minuti di ricerca al computer, solleva il capo, congiunge i polpastrelli che sembra Mr Burns dei Simpson (ma con una nota in più di scoramento) e mi chiede: «Ok Sir, let me Know: what happened?». Cos’è successo. «I don’t know». Scrollo le spalle e mi rendo conto per la prima volta da quando ho visto la scritta «Gate 42» della portata comica di tutta la vicenda. Lei mi sta guardando fissa, la sua collega ha lo stesso aspetto sbigottito e, mi pare, leggermente spaventato («Che abbiamo combinato? È legale? Avremo problemi? Ci faranno chiudere? PERDEREMO IL POSTO?!», sembra pensare, ma forse sono io che ho una immaginazione troppo galoppante. Forse stanno solo ragionando: «Come ha fatto a perdersi questo cetriolo?»). Mi viene da ridere e ridendo mi sento comunque di volerle tranquillizzare. «Sentite, non sono qui per creare problemi. Rimettetemi sul primo aereo verso casa e amici come prima». Non sono sicuro che l’espressione «friends like before» sia corretta, ma secondo me hanno capito.
Da questo momento comincia l’attesa. Mi mettono in un angolo della fila e la prima tizia si piazza al telefono, iniziando a parlare con tutti i suoi capi fino a, su, su, immagino, il megadirettore galattico di Ryanair. Me lo figuro tipo un Elon Musk più povero e senza navicelle spaziali. Comunque, uno che vola. Nel frattempo, prendo il cellulare e comincio a fare telefonate: c’è un sacco di gente che si starà chiedendo che fine ho fatto.
Per primi chiamo i miei genitori. Mia madre chiede: «Ma non mangi qui, quindi?». «Mamma, hai capito che sono in Portogallo?». «Sì, sì, ma quindi mangi lì?». Mio padre è più ottimista: «Dai, dove sei?». «Papà…». «Non lo dico a nessuno se è un altro scherzo come quello del satellite Goce che cade in piazza a Cinquefrondi. Però a me dimmelo che è uno scherzo. Su!». Non è uno scherzo, mannaggia. Mio fratello: «Tutte a te capitano». Zia Maria: «A Gioia Tauro sei?». «No, zia, in Portogallo». «Va beh, copriti».
Quando videochiamo la mia fidanzata lei è appena rientrata a casa: ha un broncio che le arriva alle ginocchia. «Mi hai fatto aspettare due ore e mezza al sole e fare due viaggi in macchina per niente!». «Tesoro, che colpa ne ho se mi hanno imbarcato sul volo sbagliato…». «Certo, la colpa adesso è loro. Sei tu che sei sbadato! Sei salito sull’aereo sbagliato perché hai sempre la testa tra le nuvole!». Quando chiudo la telefonata ci rifletto un po’ su. È davvero possibile sbagliare aereo? Nel 2021… con tutti i precedenti recenti di terrorismo, le norme restrittive per il covid e il sempre crescente isolamento di stati e popolazioni…? Anche qui, c’è qualcosa che non quadra.
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