C’è stato un tempo in cui mi prendevo delle cotte pazzesche
C’è stato un tempo in cui mi prendevo delle cotte pazzesche. Erano delle cotte sincere, infatuazioni potenti che muovevano i miei pensieri, le mie parole e, soprattutto, le mie azioni. Era un bel tempo, sotto certi aspetti, ma era anche brutto, sotto altri.
Succedeva per esempio che le scrivevo una poesia, che poi poesia non era, o le dedicavo una canzone, che però stonavo come una cornacchia, e lei niente: nemmeno mi degnava di uno sguardo, di un sorriso o di un mi piace. Succedeva che passavo cento volte al giorno sotto casa sua e non si affacciava. Che andavo a mare dove andava a mare lei e non indovinavo mai l’ora, io ero lì di mattina e lei invece ci veniva di sera, io andavo la sera e scoprivo che lei ci era venuta di mattina. Succedeva che io le dicevo ti amo e lei mi rispondeva “Grazie ma, no, grazie”.
Succedeva che io la notte piangevo con la faccia affondata nel cuscino e lei dormiva tra le braccia di un altro che, secondo me, nemmeno la amava. E che però, poi, alla fine, scoprivo che non solo la amava, ma l’amava nel modo in cui io non avrei potuto mai.
Era un tempo in cui pensavo che l’amore fosse una cosa che ti completava, che ti aggiustava, che se fino a quel momento eri stato solo e triste e irrisolto arrivava lei e ti riempiva, gioivi e ti risolvevi. Pensavo che l’aggettivo possessivo “mia” fosse la parola più bella del mondo, insieme a “tuo”, quando parlavo con lei e a “suo” quando parlavo DI lei. Pensavo inoltre che la vita e l’amore fossero l’uno la condizione senza la quale dell’altra, così che se lei non mi avesse voluto, alla fine, io sarei morto.
Impiegai un po’ a capire che alla fine, io, lei, e tutti noi, saremmo morti lo stesso.
E insomma era il tempo in cui per rispondere alla domanda “Chi sei?” cercavo di farmi connotare dagli altri. Lei mi avrebbe dato una identità e un ruolo, sarei stato il suo ragazzo, il suo sposo, la sua meraviglia. E per rispondere alla domanda “Dove vai?” mi immaginavo quindi matrimoni, viaggi, figli, case, letti matrimoniali soffici e grandissimi. E per rispondere alla domanda “Da dove vieni?” mi guardavo indietro e mi dicevo da un posto in cui non c’è lei. Perché lei – così come l’altra e tutte le altre di cui mi sono preso una cotta pazzesca – era l’unica misura del mondo possibile, per uno sciocco come me.
Quello era il tempo in cui non avevo ancora letto Fromm, per esempio, e avevo ancora visto poco del mondo, non ero ancora caduto e non mi ero ancora rialzato. Quello era il tempo in cui sognavo ancora, nei momenti di pausa, tra una cotta e l’altra, di diventare un astronauta o di scorgere un UFO nel cielo, così, per caso, semplicemente passando due ore a notte con il naso puntato alle stelle. Quello era il tempo in cui non mi ero, davvero, mai, innamorato, e dell’amore sapevo solo quello che i film, la tv, gli amici, la gente diceva essere l’amore.
È stato un bel tempo, da una certa prospettiva, ma è stato anche brutto, da tutte le altre.
Un giorno poi mi sono sdraiato sulla riva di cemento di un teatro norvegese, lo zaino rosso sotto la testa, un concerto maliconico al di là del fiordo e due tizi con la tavola da surf a rigare il riflesso del tramonto nella striscia d’acqua davanti a me. Ero solo, il cellulare scarico e le gambe indolenzite. Soprattutto ero felice.
L’aria era pura e la terra sotto di me solida e sicura. C’era così tanto spazio intorno a me e seppure nessuno si accorgesse nemmeno della mia presenza, mi sentivo integrato, bene accolto, mi sentivo amato.
Un giorno, quel giorno, ho realizzato qualcosa di cui avevo sentito parlare molte volte, di cui avevo scritto troppo senza sapere niente: l’amore accade. E l’idea che bisogna essere in due per averne esperienza è il più grande imbroglio della storia dell’uomo.