L’ASSENZA di lavoro e di occupazione è disperazione, annientamento della dignità, fonte di insicurezza sociale. Più grave l’impotenza di chi invece un lavoro riesce a trovarlo dopo anni di ricerche e finisce nelle grinfie di un sistema caratterizzato da sfruttamento continuo e aggravato che offende e rende quasi schiavi. E non c’è possibilità, di far rispettare con- tratti e leggi, perché si rischia di perdere anche quel poco che si è riuscito a trova- re. Eccoci dunque nella terra dei senza diritti e nell’era de- gli esercenti o di imprenditori spregiudicati. Cominciamo una nostra inchiesta sul “quasi lavoro nella Piana” e sui meccanismi contorti che vengono messi in atto con la speranza che Ispettorato del Lavoro, Procura della Repubblica, Guardi di Finanza affondino i colpi per ripristinare diritti negati e mettere al bando coloro che sfruttano persino il respiro degli uomini. Michele Albanese Il mondo del lavoro è cambiato in Italia, in Europa e nel mondo, influenzato dalla tecnologia, dalla politica e, soprattutto, dalle crisi socioeconomiche del terzo millennio. Il tasso di disoccupazione è altissimo su tutto il pianeta, ma, soprattutto, in quei Paesi, come il nostro, che alle criticità globali sommano anche una serie di debolezze strutturali storiche e di difficile risoluzione. Il discorso peggiora ulteriormente quando spostiamo lo sguardo al Sud e alla Calabria, la quale, per esempio, nel 2018 ha registrato statistiche quanto mai allarmanti. Solo per citare alcuni dei dati raccolti dall’Eures l’anno scorso, la quota di calabresi tra i 15 e i 64 anni che non lavorano, non studiano e non seguono un percorso di formazione per il lavoro, è risultata essere pari al 46,9 per cento (è del 34,3% in tutta l’Italia). Daniele vive nella Piana di Gioia Tauro, ha 35 anni e non lavora da 4. Per il centro dell’impiego è uno degli oltre 160 mila disoccupati della Calabria, ma, dopo averci chiacchierato per un po’, capiamo che in realtà è uno degli oltre 900 mila inattivi censiti dall’ISTAT nel 2018, quelle persone, giovani e meno giovani, che hanno smesso persino di cercare lavoro. Daniele è un “Rassegnato”, come lui stesso si definisce, anche se conosce tutte le altre etichette che, nel corso del tempo, politici e giornalisti gli hanno affibbiato: da “bamboccione” a “parassita” a “pigro”, solo perché, grazie al cielo, ha ancora una famiglia che lo sostiene nonostante la situazione precaria. Daniele, tuttavia, ha ben chiara la sua situazione e sa di non essere nulla di tutto questo. “Ho lavorato per quasi 7 anni per una catena di supermercati discount”, ci racconta, “sballottato tra un punto vendita e l’altro, svolgendo lavori più o meno pesanti per tredici, quattordici ore al giorno. La paga? In busta paga risultavano, ogni mese, circa mille euro”. Che comunque sono molto pochi, per una giornata lavorativa così lunga. “Non avevo mica un contratto full-time”, ci tiene a specificare, “Tutti e quattro i contratti che mi sono stati fatti nel corso di questo rapporto lavorativo erano dei part-time. Il primo di tre mesi, il secondo e il terzo di sei mesi. Poi mi hanno fatto fermare per un po’ e quando mi hanno richiamato mi hanno assunto in una nuova posizione. Con questo giochetto ho fatto il banconista, il cassiere, il magazziniere e l’aiuto macellaio”. Ma a che pro? “Credo che lo scopo fosse continuare con il contratto di prova ed evitare il più possibile quello a tempo indeterminato, che dopo un tot di rinnovi, per quanto ne so, dovrebbe essere obbligatorio”. Daniele non ha molto chiare le leggi che regolamentano il lavoro in Italia e anche quando parla di contratti e buste paga ammette di saperne molto poco. “Quando il lavoro scarseggia e l’età avanza, tendi ad accettare quello che ti danno. Alcuni miei colleghi, assunti con un contratto migliore del mio, restituivano metà della paga versata loro, ogni mese, sul conto in banca. Ricevevano il bonifico, ritiravano la metà dei soldi da uno sportello bancomat e la consegnavano in contanti al ragioniere dell’azienda”. Daniele sa che quello era un reato e di tutt’altro che lieve entità, ma quando glielo ricordiamo alza le spalle: “Non è il peggio che ho visto”. Ci racconta dunque dei turni estenuanti, delle finte lettere di richiamo arrivate periodicamente a tutti i dipendenti – per avere delle pezze d’appoggio in caso di licenziamento immotivato – e delle moltissime ore di straordinario divenute sempre più ordinarie e sempre meno retribuite. “Personalmente, avrei dovuto fare sei ore al giorno, invece ne facevo dieci e prendevo addirittura una paga decurtata di malattie, tredicesime e persino degli 80 euro di renzi, che si metteva in tasca il datore di lavoro”. Ma ha continuato a lavorare per lo stesso datore di lavoro per quasi sette anni, come mai? “Ripeto, da qualche parte di deve pure lavorare”, Daniele cita Bukowski, ma forse non se ne rende nemmeno conto. “E se mi richiamassero, ci tornerei anche oggi”. Come mai non lavora più lì? “Quando ho compiuto trentun anni, dopo la scadenza del sesto o settimo contratto di prova, mi hanno fermato e non mi hanno più richiamato”. Le agevolazioni fiscali si fermano a quell’età, sembra questa l’ovvia motivazione. Le aziende come quella che dava lavoro a Daniele cercano sempre carne fresca, per spremerla fino all’osso e sfruttare tutti i dispositivi fiscali agevolati previsti per l’inserimento lavorativo dei più giovani. Ma nemmeno Daniele riesce a dare tutte le colpe ai suoi datori di lavoro: “In fondo, un lavoratore costa quasi il doppio, alle aziende. Sai quanto devono versare per ognuno di noi all’INPS?”. Lo sappiamo. Sempre secondo l’ISTAT, le tasse e i contributi previdenziali continuano ad alleggerire in maniera eccessiva i salari e gli stipendi. Dati alla mano, un operaio con uno stipendio mensile netto di poco superiore ai 1.350 euro, costa al suo titolare un po’ meno del doppio: 2.357 euro. Questo importo si ottiene sommando la retribuzione lorda (1.791 euro) al prelievo contributivo a carico dell’imprenditore (566 euro). Il cuneo fiscale, dunque, calcolato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta, equivale…
Categoria: INCHIESTA SUL LAVORO
2 – Giovani e lavoro
Enrico ha ventisei anni e lavora in uno studio di commercialista. Apre l’ufficio alle 9, accende i computer, registra le ultime fatture arrivate via mail la sera prima dopo l’orario di chiusura, e attende il suo datore di lavoro, che occupa l’ufficio accanto al suo. Per tutto il giorno, appronterà bilanci, incontrerà i clienti, compilerà modelli 740 e alle sette di sera, dopo che i colleghi e il capo sono andati via, chiuderà tutto lasciandosi il lavoro alle spalle fino all’indomani mattina. A Enrico piace il suo lavoro e non si lamenta nemmeno della paga che, stringendosi nelle spalle, alla fine ritiene “sufficiente al sostentamento di un single convinto come lui”. Ma c’è un problema: per tutta l’intervista Enrico si dimentica di dirci che non è assunto. “Ah, scusatemi, lo do sempre per scontato. Io lavoro con partita IVA”. Cosa che in teoria vorrebbe dire che lavora come libero professionista ma che in sostanza significa che il suo datore di lavoro scarica tutto il peso fiscale su di lui. “Beh, sì, in fondo è così”, ammette, ma non sembra dargli fastidio, “però lavoro qui da cinque anni ormai, mi trovo bene”. Enrico non ha tredicesime, malattie pagate, versa da solo una percentuale spropositata di contributi INPS (è nel regime forfettario, quindi ogni anno versa in contributi pensionistici oltre il 25%, più le tasse, IRPEF, pari a un altro 15%) e non ha nessuna tutela contro il licenziamento ingiustificato. Però fa orari d’ufficio, lavoro d’ufficio e ha responsabilità da lavoratore dipendente. “Anche da dirigente, a volte”, ci rivela sorridendo. Come lui, d’altronde, centinaia di persone accettano questo compromesso ritenendolo persino favorevole per entrambe le parti. Il costo del lavoro è enorme, per le aziende, i dati ISTAT lo confermano rilevazione dopo rilevazione, ma la tassazione sulle partite iva, come abbiamo appena visto, nemmeno scherza. Abbiamo incontrato due giovani informatici che, da qualche anno, si arrabattano nel tentativo di fornire un servizio di consulenza grafica e di web design alle aziende calabresi che, solo recentemente, hanno cominciato a scoprire la dimensione social del proprio mercato. “Loghi e siti internet, qui da noi, raramente sono in cima alle preoccupazioni dell’ufficio marketing. Le aziende calabresi e del Sud in generale continuano a trascurare l’incredibile impatto di Internet e, soprattutto, dei social network come Facebook e Instagram, sul pubblico”, dice Francesco, web designer. “Non solo”, interviene il suo socio Girolamo, grafico e illustratore, “basta dare un’occhiata alla maggior parte dei loghi: è difficile trovarne che non sembrino etichette anni sessanta, pieni di scritte, di numeri, persino indirizzi! Quello che stiamo cercando di fare, da qualche anno, è di portare valore aggiunto a queste aziende tradizionali, catapultandole nel terzo millennio”. E funziona? “Molti hanno recepito, con altri stiamo lavorando e sono sicuro che, piano piano, riusciranno anche loro a vedere l’enorme potenziale di un sito internet ben fatto o di una efficace comunicazione Facebook. Il resto invece è… disastroso”. Come mai? “Beh, a partire dall’aspetto più importante: sapete quanto lavoro c’è dietro alla costruzione di un sito internet? Progettazione, design, assemblaggio, compilazione, ottimizzazione e inserimento testi, e poi il SEO, il debugging finale…”. Beh, sì, è comunque un lavoro specializzato. “Esatto! Ma sapete cosa ci rispondono la maggior parte dei clienti quando diamo loro i preventivi? Cose del tipo: ‘tutti questi soldi per un sito internet?!’. Come se stessimo parlando di qualcosa di frivolo e inutile, un semplice vezzo che, ormai, vogliono tutti”. È la classica strategia del “A questo punto me lo facevo fare da mio cugino, che smanetta, pure lui, col computer…”. Ma il problema non è solo formale: “Molto spesso quindi, dopo svariati incontri e molte ore spese a preventivare, abbozzare una grafica, fare avanti e indietro dal potenziale cliente, ci vediamo rifiutato il lavoro. E anche quando lo otteniamo, ci fanno dannare per mesi e alla fine tirano sul prezzo”. Francesco si mette una mano sulla fronte e muove la testa sconfortato. “Per non parlare del recupero crediti: noi fatturiamo tutto e paghiamo un mucchio di tasse su soldi che, nel migliore dei casi, recuperiamo a piccoli tranci in uno o due anni. E solo se facciamo la spola continuamente dal committente”. È mai successo di aver consegnato il lavoro e non essere mai stati pagati? “Sì, alcune volte. Troppe, in realtà. Ma cosa fai? Denunci per duemila euro? Con i tempi della giustizia – e con i suoi costi – non ti conviene. Ormai mettiamo in conto anche questo e ci limitiamo a chiedere un anticipo”. Per quanto riguarda la concorrenza? “Eh, altra piaga. C’è il nero, che ci distrugge, e i ragazzini appena usciti dagli istituti tecnici che svendono il mestiere del webdesigner consegnando alle aziende semplici e arraffazzonate pagine web che, spesso, non hanno nemmeno la grafica ottimizzata per dispositivi mobili”. Girolamo, prima di salutarci, chiosa: “Abbiamo deciso di tirare un altro anno al massimo, ma se continua così andremo via”. Dove? “Speriamo all’estero, ecco perché nei prossimi dodici mesi approfitteremo per studiare l’inglese”. Domenico invece fa l’idraulico e dopo dieci anni di lavoretti alla giornata ha deciso di fare il grande salto: aprire una partita iva, comprare un Fiorino e prendere un aiutante. “Negli ultimi anni ho avuto molte richieste, forse perché sono diventato sempre più bravo, e anche se qui nella Piana ci sono molti idraulici io sono riuscito a farmi una cerchia di clienti fidati, che mi raccomandano agli amici e gli amici ai loro conoscenti e così via di passaparola. Alcune cose, però, senza partita iva non potevo farle…”. Che tipo di cose? Prima qual era la tua posizione? “Se mi prometti di farmi restare anonimo te lo dico”. Ovviamente Domenico era un altro delle centinaia di lavoratori in nero della zona. Un recente studio di Censis-Confcooperative ha rivelato che tra il 2012 e il 2015 l’occupazione regolare in Italia si è ridotta del 2,1% mentre quella irregolare è aumentata del 6,3%, per un totale oltre 3,3 milioni i lavoratori. Il maggior numero di lavoratori irregolari (146mila) è proprio in Calabria, dove l’incidenza percentuale…
3 – “Guerra tra poveri”
Il quadro tracciato nelle precedenti puntate ci ha restituito un’istantanea assai preoccupante sul mondo del lavoro nella Piana di Gioia Tauro e non hanno tardato ad arrivare le reazioni da parte dei lettori, di una parte della politica e del mondo delle associazioni. Il destino dei nostri giovani, tra disoccupati di lunga data, inoccupati, inattivi, NEET e Partite Iva soffocate da una tassazione record in Europa, sembra tutt’altro che roseo, e la preoccupazione travalica la sensibilità individuale, caricando il sentire e l’agire di quanti, combattendo una battaglia apparentemente titanica, continuano a sperare nel recupero del nostro territorio. Questa settimana abbiamo sentito don Pino Demasi, vicario pastorale per i problemi sociali della diocesi di Oppido-Palmi e referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro, che da anni si occupa, tra i tanti altri, di questo importante problema. “È una guerra tra poveri”, comincia così l’intervista, “che solleva svariati problemi etici e morali, all’interno di un contesto sociale sempre più povero di senso civico e responsabilità”. Don Pino si riferisce a quanto emerso anche dalle interviste che il Quotidiano ha fatto nelle scorse settimane, a giovani e meno giovani sfruttati fino al midollo da imprenditori che scaricano sulle spalle dei propri dipendenti parte dei costi aziendali e, in alcuni casi, l’intero rischio di impresa. Cosa si può fare in proposito: c’è un modo per intervenire attivamente e cercare di riparare quello che, a giudicare dalle tante voci raccolte, sembra irreparabile? “Il punto è che stiamo parlando di un problema invisibile, una questione che ‘ufficialmente’ non esiste, se, come già rivelato da voi, il lavoratore non denuncia e preferisce mantenere l’anonimato”. Quando, aggiungiamo noi, non difende apertamente il datore di lavoro che, in una logica di sudditanza psicologica, addirittura ringrazia per avergli dato, in un periodo di vacche magrissime, quel minimo di sostentamento. “Manca una cultura del lavoro, a tutti i livelli della società, e la vera urgenza è questa: cercare di colmare questo vuoto”. La Chiesa fa la sua parte, cercando di arrivare all’impresa suggestionandola da un punto di vista etico. “Il Progetto Policoro è un esempio perfetto”, spiega Demasi, “con la sua struttura capillare e stratificata, composta da uno sportello, un tutor e un animatore per ogni diocesi, che concertano alla diffusione di concetti semplici e potenti, come l’idea che “sfruttare il lavoratore è peccato mortale”. L’obiettivo principale del progetto è chiaro: diffondere un’etica del lavoro, semplice, chiara, estesa, promuovendo e aiutando l’imprenditore sano ed esercitando una forma di controllo morale su quanti, per esempio, aiutiamo ad accedere attraverso Banca Etica al microcredito”. In tutto questo, che ruolo sta svolgendo la politica? E, soprattutto, che fine ha fatto la sinistra? “Purtroppo, la sinistra si è allontanata dalla gente”. Risponde Don Pino, amareggiato. “Un tempo presidiava le fabbriche, i politici di sinistra erano prima di tutto operai e contadini, lavoratori essi stessi. Sono finiti i tempi in cui Mommo Tripodi andava nelle campagne e partecipava alle battaglie dei braccianti, bracciante egli stesso, catalizzando lotte che riuscivano a smuovere davvero le cose. In pochi ricordano storiche lotte come quelle delle Gelsominaie, che hanno scritto pagine bellissime di emancipazione e rivendicazione dei diritti”. I lavoratori sembrano non avere più voce in politica. “Sono d’accordissimo con Don Pino”, ammette Michele Conia, sindaco di Cinquefrondi ed esponente di Rinascita, che si dichiara da sempre esponente di quella sinistra che sembra “non esserci più”: “La sinistra ha commesso molti errori, a livello nazionale e locale, e quello di allontanarsi dalla gente potrebbe essere uno dei più importanti, ma il problema più grande con cui ci siamo scontrati è stato quello di perdere il treno della comunicazione social. Mentre noi tentavamo ancora di riempire le piazze e affiancare il lavoratore e i giovani faccia a faccia, qualcuno ci sorpassava a destra, arruolando spin-doctor e smanettoni informatici per arrivare alla pancia della gente con fake news e slogan pronti al consumo”. Non è difficile cogliere il riferimento all’opera leghista e pentastellata, che deve gran parte della sua efficacia a una abile – per quanto discutibile – manipolazione della platea internettiana. “E sono d’accordo con Don Pino anche sulla analisi che fa del problema invisibile dello sfruttamento lavorativo. Sappiamo tutti cosa funziona o non funziona nella Piana di Gioia Tauro e in Calabria, conosciamo benissimo i meccanismi imprenditoriali che permettono questi tipi di sfruttamento: abbiamo tutti dei parenti che hanno lavorato accettando certe condizioni e oggi, superando una certa età, si trovano in situazioni di irrisolvibile inoccupabilità. Ma è veramente una guerra per la sopravvivenza, una lotta in cui è persino difficile definire bene il nemico, se il datore di lavoro viene percepito come colui che ci sta facendo un favore. Non tutti hanno la forza di ribellarsi”. “Come possiamo chiedere a un giovane di lasciare quel poco che il datore di lavoro, pur sfruttandolo, gli dà, se per quel giovane non sembra esserci altro?”, chiosa Don Pino. Su un’altra delle questioni scottanti emerse nei nostri precedenti articoli, quella riguardante le autorità preposte al controllo delle condizioni di lavoro, le opinioni tendono a divergere. Don Pino è convinto che l’ispettorato del lavoro faccia un buon lavoro e che, probabilmente, il problema sia, ancora una volta, strutturale: “Sono probabilmente troppo pochi, gli ispettori, ed è difficile controllare una realtà così vasta e mutevole, in un territorio complesso e confuso come la Piana di Gioia Tauro”. Per Conia, invece, sembra esserci una disparità di trattamento fra grandi e piccole realtà lavorative, se un agricoltore, per esempio, viene multato pesantemente per non aver messo in regola il bracciante che gli lavora a giornata, magari liberandogli il terreno da piccoli rifiuti e foglie secche, e, invece, nei grandi supermercati, la stipula di centinaia di contratti stipulati annualmente pare non destare nessun sospetto negli osservatori competenti. Conia cita, a mo’ di esempio, un’altra realtà, quella dei centri turistici e balneari, che d’estate funzionano grazie al lavoro di centinaia di giovani, che sembrano sostenere turni strazianti e disumani. Anche in questo caso, raramente i media riportano grandi casi di controllo da parte delle autorità…
4 – Diritti negati e precarietà
PROSEGUE il viaggio del Quotidiano del Sud nel mondo del lavoro, attraverso le problematiche a esso collegate. Dopo la pausa estiva torniamo a parlare di lavoro, concentrandoci ancora una volta sulla situazione emergenziale che interessa il territorio della Piana di Gioia Tauro. Dopo aver sentito opinioni, paure, difficoltà e speranze dei giovani impiegati nei più disparati settori lavorativi, questa volta la questione viene analizzata dal punto di vista delle organizzazioni sindacali che operano sul territorio. Il tutto, partendo da un dato bene preciso: più di un lavoratore su tre, in Italia, non trova lavoro, ma è nelle regioni del Sud che il dato da allarmante si fa spaventoso: una intera generazione di giovani meridionali è fuori dal processo produttivo e continua ad an- dare via, spopolando anche le aree interne. Un’emorragia sociale «È un’emorragia sociale», a definirla così è Celeste Logiacco, 37 anni, segretaria generale della Cgil di Gioia Tauro da quando ne aveva 34, ma da sempre impegnata nel sindacato al fianco dei lavoratori, distinguendosi, tra l’altro, per l’impegno al fianco dei migranti della tendopoli di Rosarno e San Ferdinando e dei lavoratori dell’agricoltura. «Precarietà, riduzione dei diritti, frammentazione del lavo- ro sono stati gli effetti delle politiche di austerità messe in campo per affrontare la globalizzazione, politiche che si sono rivelate fallimentari soprattutto nel dare risposte alle nuove diseguaglianze. Gli indicatori economici peggiorano giorno dopo giorno, così come peggiora il divario di sviluppo tra le diverse aree del Paese, in particolare tra il Mezzogiorno e il Nord». L’occupazione è un’emergenza, in particolare tra i giovani e le donne, e il tessuto sociale non può che risultarne impoverito, divenendo facilmente fertile per i fomentatori di odio. Ricordiamo soltanto come il tasso di occupazione attuale sia del 30% circa, con ben 20 punti percentuali di scarto rispetto al Nord del paese. «Il Tasso di disoccupazione è addirittura il triplo rispetto al Nord», aggiunge Logiacco, «e il doppio di quello del Centro Italia». Ci sono stati degli interventi legislativi, in questa direzione, e tante sono state le misure adottate negli ultimi anni per venire incontro a questa situazione. «Interventi e politiche fallimentari, ma non poteva essere altrimenti, visto che non erano sostenute da politiche industriali concrete e reali investimenti, ed è mancato un sostegno alla qualità del lavoro e al suo riconoscimento sociale ed economico. I dati più allarmanti riguardano infatti l’esplosione di ciò che state rilevando anche voi, con la vostra inchiesta: il lavoro povero, sotto-retribuito e irregolare». Diritti negati Nelle puntate precedenti, abbiamo intervistato molti giovani che ci hanno raccontato di come, per esempio, dichiarano di percepire uno stipendio congruo ma sono co- stretti a restituirne la metà al datore di lavoro, o di come il datore di lavoro spesso trattenga le tredicesime, gli 80 euro di Renzi e gli altri contributi. La maggior parte degli intervistati, tuttavia, ha chiesto di rimanere anonima, e di fronte alla possibilità di denunciare o di andare dal sindacato si è dimostrata pessimista: la conseguenza di una azione del genere, sarebbe stata, secondo loro, la classica caduta dalla padella nella brace. «È di diritti negati che stiamo parlando», dice Logiacco, «ma spesso i lavoratori non lo san- no nemmeno di avere certi diritti. Abitiamo un territorio molto complesso e compromesso, dove anche e soprattutto il mercato del lavoro è inquinato: perché non vengono rispettati i contratti, i ragazzi assunti restituiscono parte dello stipendio, c’è uno sfruttamento di fondo che è diventato quasi la prassi… Vengono da noi, ma quando si deve andare avanti, avviare una vertenza, le paure manIfestate sono le stesse che avete raccolto anche voi. Dicono: “se sanno che ho parlato con il sindacato è un problema, se denuncio poi non verrò più assunto da nessuno”. È difficile trovare il coraggio, ed è anche comprensibile». Alcuni non sanno nemmeno cos’è una vertenza. «Vero. Perché il più delle volte sono giovani, ragazzi che vengono assunti per la prima volta, che disconoscono anche quelli che sono i propri diritti in base al contratto che hanno, al di là di quelli firmati dalle organizzazioni confederali. Alcuni disconoscono la legge del lavoro e non sanno nemmeno ciò che hanno firmato. Capite bene che avviare una vertenza è difficilissimo, in questo scenario. Per questo motivo noi andiamo nelle scuole, li informiamo prima che abbiano a che fare con il mondo del lavoro, perché en- trino nel mondo del lavoro pronti, preparati, consapevoli delle regole del gioco, di diritti e doveri. Se i giovani che avete intervistato, Enrico, Matteo, Alessia, e tutti i giovani che non vogliono e non possono mettere la faccia si unissero, se capissero che si possono unire, beh, io credo che in questo modo sarebbe possibile cambiare le cose. Di questo parliamo nelle scuole, lì li informiamo, gli dimostriamo che l’unione davvero fa la forza. Anche perché l’alternativa, altrimenti, è quella di andare via. Ma se tutti andiamo via… cosa resta della Calabria? Se tutti andiamo via, in questa terra non cambierà niente». Il sindacato fa la sua parte In Calabria non c’è una grande cultura del sindacato, come in Emilia- Romagna, o in Lombardia. Qui ci si iscrive al sindacato quando si è in difficoltà, cosa che ha un peso assai diverso, anche nelle trattative: «Se a un tavolo rappresenti dieci perso- ne è un conto, se ne rappresenti cento… capisci che è diverso». Cgil è il primo sindacato italiano e conta quasi 14 mila iscritti nella piana di Gioia Tauro, dato che oscilla con il numero di assunzioni, le Naspi e le disoccupazioni, ma che è importante su un territorio abitato da più di 150mila persone. Come vengono raggiunti i lavoratori? Come si fa a informare delle persone che non sanno nemmeno di poter essere informate? «I lavoratori si rivolgono a noi per i servizi, il primo approccio è spesso non con noi ma con il patronato, con il Caf, e poi, magari, gli operatori stessi, preparando la pratica, prendono in carico il lavoratore e lo informano a proposito di diritti e doveri. Poi, ovviamente, andiamo in azienda, nelle assemblee,…