Constatata la situazione odierna, col permesso di Saso, apro una parentesi nella nostra rubrica per cercare di contribuire al dibattito odierno. Si sta cercando una soluzione accettabile alla pandemia, a livello globale ma… Non chiamatela guerra, non lo è. Facendolo si rischia di inquinare il linguaggio e la mentalità. E, inoltre, rischia di essere fuorviante. Quella che stiamo vivendo è una emergenza socio-sanitaria (ed economica) ma non è “una guerra”. Almeno nel senso corretto del termine. Dobbiamo restituire alle parole la loro dignità. Non possiamo usarle a sproposito. Ammettendo che è ammissibile, in particolare oggi, essere impauriti, si nota come temiamo per la nostra vita, per il futuro, per i nostri cari ecc. però questo non ci autorizza a cambiare terminologia. In fondo vorremmo solo essere rassicurati. Non c’è bisogno di ricorrere alla dialettica bellica, che autorizza l’uso di un linguaggio particolare e che ci restituisce il senso di eccezionalità che stiamo vivendo oggi in piena pandemia. Non è corretto fare così. Procediamo per gradi e scopriamo perché. Proviamo a rispondere alla seguente domanda: davvero siamo in guerra? Tecnicamente no. E grazie al cielo possiamo negare questa possibilità, ad oggi. Allora di cosa si tratta? come già anticipato, si tratta di una emergenza, di una sfida, di una prova, di una situazione comunque già affrontata nel corso della storia e dalla quale potremmo imparare molto. Anche perché un’umanità che non impara dall’esperienza non è propriamente “umana”. È un insieme di umanoidi che agiscono meccanicamente e “per convenienza” non per giustizia e verità. Per cui, la retorica bellica usata da tanti serve solo a giustificare e introdurre elementi nella nostra vita che rimandano alla memoria interventi decisi in tempi di guerra come la restrizione delle libertà personali, l’abituarci a contare le vittime, a guardare immagini di carri militari passare nelle nostre città ecc. È la metafora bellica a far sì che gli ospedali siano definiti “trincee”, i medici “soldati” e purtroppo anche “caduti” nella “battaglia” in soccorso, mentre i civili sono “attaccati” dal virus che diventa il “nemico da combattere”. I culti religiosi vengono sospesi, limitati, proibite le adunanze pubbliche, il Governo legifera in modo straordinario assegnando al parlamento una mera funzione di rettifica. Insomma, come si sente dire da più parti: “in tempi di guerra tutto è ammesso”. E no! Questo proprio no! Ed è il motivo per cui bisogna disinfettare non solo le mani ma anche il linguaggio, e chiamare le cose col proprio nome. Per cui, smontare la retorica della “guerra” serve a restituire agli uomini quel senso di responsabilità e di consapevolezza che altrimenti rischia di naufragare nel mare dell’illusione che ci siamo costruiti. Innanzitutto – non essendo in guerra – ai medici va restituito l’alto ruolo che gli appartiene. Non sono degli eroi. Sono dei “medici” (un gradino più alto). Sono uomini che incarnano una missione. Sono persone che fanno sacrifici perché rispondono ad una chiamata di responsabilità (propria di una missione) che gli permette di fare opere e orari straordinari. Sono coloro che garantiscono le cure necessarie laddove servono. Sono loro, in prima linea, a guardare in faccia i pazienti e rassicurarli, curarli e accompagnarli nella loro sofferenza. Per tutelare il “diritto” alla salute. Perciò – non essendo in guerra – per loro (i medici) dobbiamo pretendere che vengano assistiti nel migliore dei modi da parte dello Stato e con le necessarie accortezze e attrezzature di cui abbisognano per svolgere il loro lavoro nella massima professionalità e protezione. Non sono in “trincea” e non vanno mandati allo sbaraglio. Va gestito il personale in modo “umano”. È anche la loro salute che dev’essere tutelata, perché il virus non fa distinzioni. Non essendo in guerra – giova ricordarlo – possiamo evitare di occultare le situazioni di responsabilità che emergeranno (già alcune sono emerse) nel gestire la crisi. Ci troviamo in questa situazione anche perché, già da qualche anno, invece di investire nella sanità si sono sottratte delle preziose risorse proprio alla sanità pubblica. La miopia governativa, in questo caos, è emersa in modo drammatico. E oggi i cittadini pagano le conseguenze di scelte errate non l’effetto di un “attacco improvviso di virus”. Questo breve scritto non ha altra pretesa che restituire, in parte, la chiarezza terminologica, ed essere anche un doveroso inchino nei confronti della classe medica e degli operatori sanitari in generale, perché grazie ai loro sforzi quotidiani (non solo in tempi di pandemia), alla loro dedizione e alla loro missione ci permettono ancora di sperare. A noi la responsabilità di supportarli per quanto necessitano. E la garanzia che, finita l’emergenza, si possa nuovamente programmare con lungimiranza un nuovo modello sanitario più attento alle esigenze di tutti e più umano. Perché i medici non sono “eroi di guerra”. Sono “missionari” tutti i giorni dell’anno. Non si possono offendere etichettandoli come eroi solo oggi, in tempi di pandemia, quando l’esigenza del loro operato è più in evidenza (mentre quando pagano di tasca propria la sicurezza nei pronto soccorso perché minacciati, non sono eroi?). Va restituita l’alta dignità di “medici” che hanno a cuore la vita delle persone e che cercano sempre, tutti i giorni, quotidianamente, di curare, prestare soccorso, accompagnare, stare vicino. Insomma, sono loro che umanizzano l’antica arte medica. Sono loro i depositari di un sapere che, oggi più che mai, necessita di essere ri-umanizzato. Non ci rassicureranno i dati impressi in un monitor ma uno sguardo umano capace di trasmettere fiducia e umanità.
Categoria: BIOETICA
“Bioeticando” di Domenico De Angelis, ep. 2: Intuizione e via…
Nella scorsa puntata, si è accennato alle tematiche affrontate dalla bioetica. Oggi, invece, si vogliono descrivere, brevemente, le dinamiche che hanno spinto i primi autori ad avviare questo percorso. L’inizio “ufficiale”, o meglio, riconosciuto come tale, è il 1970. Anno in cui l’oncologo Van Ransselaer Potter diede alle stampe un articolo, pubblicato sulla rivista “Perspectives in Biology and Medicine”, dal titolo “Bioethics. The science of survival”. Sarà il primo capitolo del suo celebre volume pubblicato l’anno successivo, “Bioethics. Bridge to the future”. La bioetica doveva costituire, per Potter, una nuova disciplina capace di combinare la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani. Potter aveva individuato nella distanza tra due ambiti di sapere, quello tecnologico e quello umanistico, un pericolo per la sopravvivenza dell’intero ecosistema e, di conseguenza, per l’uomo. Il sapere tecnologico, infatti, se lasciato libero di operare senza limiti mira solo all’autopotenziamento. Per tale ragione, la bioetica costituiva un ponte e una scienza della sopravvivenza. La sua visione non era focalizzata solo sull’uomo ma ampliava lo sguardo alla biosfera nel suo insieme. La concezione potteriana muove da una situazione di duplice preoccupazione, sia per l’uomo che per l’ambiente, lui stesso parla in termini di allarme, e viene teorizzando il dubbio sulla capacità di sopravvivenza dell’uomo, paradossalmente, proprio per effetto del progresso scientifico. Considerazioni che aprono la strada alle riflessioni dell’ostetrico André Hellegers, fondatore del Kennedy Institute of Ethics, che utilizza il termine bioetica dandone un significato diverso da quello potteriano. La considera come maieutica e la introduce nelle aule universitarie. Una scienza capace di saper interagire con la medicina, la filosofia e l’etica. L’oggetto di questa nuova scienza, sono gli aspetti etici impliciti nella pratica medica. Inoltre è grazie a lui che la bioetica acquisisce una metodologia interdisciplinare. Nel tempo è proprio questa concezione a prevalere, meno globale e più specifica, e la bioetica sarà considerata dalla maggioranza degli studiosi come una disciplina adatta a sintetizzare le conoscenze mediche e quelle etiche, in grado di superare la semplice etica in campo medico di matrice ippocratica. Come si può notare, siamo innanzi alla nascita di una nuova disciplina e non semplicemente alla naturale evoluzione di una già esistente. Negli stessi anni, bisogna menzionare anche il notevole lavoro di altri due autori, nel 1969, il filosofo Daniel Callahan e lo psichiatra William Gaylin che diedero vita al noto Hastings Center con lo scopo di studiare e formulare norme nel campo della ricerca e della sperimentazione in ambito biomedico, ancora senza utilizzare il nome “bioetica”. Altri autori, che richiameremo in un secondo momento, hanno dato una notevole spinta allo sviluppo di tale riflessione e ci accorgeremo che, in realtà, si è sempre parlato di bioetica, anche se il termine non veniva utilizzato. Per ora ci siamo soffermati solo sugli esordi della bioetica. Insomma, il binomio tecnologia ed etica dev’essere reimpostato urgentemente onde evitare tragiche conseguenze. In fondo, chiediamoci: dopo la deprecabile esperienza della bomba atomica perché invece di fermarsi atterriti si cominciò a programmare una “bomba” (biologica) ancora più potente capace di disintegrare l’uomo? Che senso ha? L’uomo dovrebbe aver paura degli strumenti che ha creato? Si tratta di strumenti è vero ma se finissero nelle mani sbagliate? Tali interrogativi meglio porli preventivamente che magari ricordarci quando ormai sarà troppo tardi. Intanto, rifletterci sopra ci sembra il modo migliore per servire l’uomo. La consapevolezza delle proprie scelte, quelle libere, dovrebbe spingerci a maggiore responsabilità. Non ad una illusoria concezione di libertà, che rischia di portarci ad un’autentica anarchia, riluttante nei confronti delle leggi dello Stato e della natura dell’uomo. Oltre, ovviamente, a ignorare le leggi morali, percepite purtroppo come inutili limiti imposti dall’uomo. Ecco che la praticità della bioetica sembra essere necessaria per meglio rispondere ad una specifica chiamata. Quella alla responsabilità dell’uomo nei confronti di sé stesso, del prossimo e del creato.
“Bioeticando” di Domenico De Angelis, ep. 1: Bioetica… di che tratta?
Con questo breve contributo mi accingo ad aprire una rubrica nel “SasoBlog” proponendo una serie di riflessioni intorno ad una parola tanto misconosciuta quanto attuale: “Bioetica”. Ne avete mai sentito parlare? Sicuramente ne siete venuti a contatto molto più di quanto immaginate, anche inconsapevolmente. La bioetica, oggi più che mai, si impone nel panorama culturale come indispensabile. Analizzando il termine, ci accorgiamo che è formato da due parole greche: “bìos” che significa “vita” ed “éthos” che significa “costume”. Etimologicamente, ad un primo sguardo, potrebbe essere riassumibile come “etica della vita”. Ad oggi, purtroppo, una definizione accettata da tutti non esiste, c’è chi la restringe solo alla clinica medica e chi, invece, la vorrebbe globale, estendendola sempre più. In compenso i più sembrano convergere nella seguente enunciazione che possiamo così sintetizzare: si tratta di uno studio sistematico della condotta umana alla luce dei principi etici e morali nel campo delle scienze della vita e della salute. La riflessione bioetica ha avuto, in realtà, una lunga gestazione. Le tematiche appena espresse sono state studiate e approfondite a più livelli e in diverse occasioni, anche prima del 1970, anno “ufficiale” del suo inizio. Ma di questo avremo modo di parlarne prossimamente. Ora ci soffermeremo solamente sulle tematiche che sono di competenza della bioetica. Individuiamo di seguito i macroambiti fondamentali: a) La procreazione umana (sessualità, procreazione naturale, fecondazione artificiale, regolazione naturale della fertilità e contraccezione, sterilizzazione); b) Genetica umana (genoma umano, biotecnologie e terapia genica, clonazione e cellule staminali); c) L’embrione (aborto, diagnosi prenatale, interventi sugli embrioni umani); d) La vita nella fase terminale (dolore ed eutanasia, accanimento terapeutico, cure palliative, morte encefalica e trapianti d’organo); e) Ambientale (la sensibilità verso la nostra casa comune, la terra, l’uomo come amministratore). Il tutto con un solo scopo: riflettere responsabilmente. Due termini essenziali. La riflessione come tipica ed essenziale attività umana, e la responsabilità intesa come capacità di rispondere ad una chiamata d’impegno. La bioetica cerca di dare una risposta ai nuovi interrogativi morali sorti dall’ampliamento delle conoscenze e dei poteri in ambito scientifico e tecnologico. Tali domande possono riassumersi in un’unica ed emblematica formulazione: quanto è tecnicamente possibile è moralmente lecito? Dobbiamo considerare che la caratteristica del tutto nuova aperta dalle moderne possibilità applicative della scienza consiste nella eventuale irreversibilità delle conseguenze, sia per l’impatto che esse potrebbero avere sul futuro dell’uomo che sull’ambiente nel quale egli vive. Ecco perché la prudenza dovrebbe essere la parola d’ordine nel panorama delle scienze mediche. Anche perché salutare come “bene” tutto ciò che è “nuovo” non è sempre positivo. Le innovazioni in campo medico e non solo, non sempre portano del bene per l’uomo a lungo termine. Insomma, avremo modo di riflettere sulle tematiche esposte che si profilano molto delicate e importanti. Intanto un avviso per voi lettori. Il tenore verbale di una parola impegnativa come “bioetica” non deve scoraggiare i non addetti al settore. Anzi, suggerendo di allontanarsi dal facile chiacchiericcio da bar e dalle tendenziose rappresentazioni massmediatiche è possibile ritagliarsi un angolo di lettura da una nuova prospettiva, aprire una finestra e guardare la vita in modo più consapevole. Che a questa possibilità possa contribuire questa serie di riflessioni è un impegno personale e di Saso (che ha garantito uno spazio in questo Blog). Anche perché, in contesti vitali, non si possono improvvisare considerazioni affrettate.